Si ferma anche la distribuzione dei miseri aiuti umanitari gestiti dalla fondazione israelo-statunitense chiamata Gaza Humanitarian Foundation (Ghf). Ventidue camion appena sono stati scaricati martedì. Prima della guerra ne entravano 600 al giorno. E non c’era la necessità, come oggi, di recuperare tre mesi di blocco totale di cibo, medicine, carburante, macchinari.
La creatura nata dalle menti e dagli interessi (economici, politici e militari) di Washington e Tel Aviv, ha manifestato tutta la sua incompetenza e una inadeguatezza che era stato facile prevedere. Lo avevano detto le Nazioni Unite. Non si può improvvisare il lavoro umanitario costruendo in pochi mesi una società nata per volere del governo il cui presidente è ricercato internazionalmente per crimini di guerra. Non lo si può fare neanche se posizioni ai vertici membri dell’esercito statunitense e imprenditori dai guadagni milionari. A quanto pare, una delle maggiori certezze del presidente Usa Donald Trump è stata smentita dai fatti: non bastano i soldi per sostituire esperienze e professionalità.
Dopo tre giorni di terribili stragi (che solo l’esercito israeliano e la Ghf continuano a negare), la fondazione ha chiuso i cancelli. Le strade di accesso ai siti sono diventate “zone di combattimento”, hanno dichiarato i militari, nel tentativo di evitare l’afflusso di disperati e, insieme, di giustificare eventuali altre morti. 27 palestinesi ammazzati martedì, almeno tre lunedì e trentacinque domenica. Le autorità di Gaza denunciano che più di cento persone sono state uccise in una settimana e circa 500 ferite, da quando la fondazione ha cominciato le sue operazioni. Tagliando fuori le Nazioni unite, le organizzazioni umanitarie, le associazioni locali che per i lunghi mesi della guerra sono rimaste spesso l’unica speranza di sopravvivenza per migliaia di persone.
Appena giunti gli aiuti, l’Onu riforniva innanzitutto le cucine di comunità e i punti di smistamento posizionati in centinaia di zone diverse di Gaza. Questo garantiva una distribuzione automatica e più sicura della popolazione e, allo stesso tempo, la messa a disposizione in tempo reale del cibo cucinato e preparato dalle mense. Le persone sapevano che il meccanismo di distribuzione funzionava ed erano disposte ad attendere lo scarico dei camion. Oggi, come ha dichiarato il Programma alimentare mondiale, “le comunità muoiono di fame e non sono più disposte a sopportare che il cibo gli passi davanti”. Perché non sanno quanto ne entra e fino a quando. Non sono certi che domani ci sarà ancora. Per recuperare questa fiducia, l’agenzia delle Nazioni Unite ha dichiarato che è necessario aprire i valichi, far entrare enormi e continue quantità di cibo, garantire rotte sicure (quelle obbligate dall’esercito non lo sono) e utilizzare tutti e 400 i punti di distribuzione. Che diventano migliaia se si contano anche quelli gestiti da associazioni internazionali e locali.
Tutto ciò non ha nulla a che vedere con il meccanismo messo in piedi dalla fondazione israelo-americana. Prima dell’inizio delle operazioni, l’esercito ha preparato tre aree di smistamento. Sono enormi distese vuote circondate da cumuli di terra che avrebbero dovuto evitare, nei piani, l’attraversamento incontrollato della popolazione affamata. A guardia delle operazioni ci sono società private appaltatrici, sempre americane, che hanno assunto centinaia di ex militari, agenti di sicurezza, combattenti mercenari. Questi ultimi, insieme all’esercito israeliano, hanno lo scopo di controllare e gestire l’arrivo delle persone. I palestinesi dovrebbero essere incanalati in stretti percorsi delimitati da reti e filo spinato. Migliaia e migliaia di persone disperate ad attendere in fila il proprio turno, nonostante tutti sappiano che le scatole sono poche e che solo chi arriva per primo riuscirà a mangiare e a far mangiare la sua famiglia. I centri gestiti dalla Ghf, infatti, chiudono entro un paio d’ore dall’apertura. È il tempo entro cui terminano i miseri aiuti previsti per la giornata. Di solito aprono alle 6 di mattina e quindi accade che già prima dell’alba centinaia di persone provano a raggiungere i cancelli per accedervi prima che tutto finisca. I militari non possono gestire migliaia di persone che si accalcano prima dell’ora X, e aprono il fuoco. “Individui sospetti” che escono dai “percorsi stabiliti”, così li chiamano. Hanno dichiarato di aver sparato colpi di avvertimento e, per ogni strage, l’esercito ha detto che avrebbe investigato. Lo avrà ripetuto centinaia di volte dall’inizio dell’attacco a Gaza. Ma l’esercito non indaga se stesso. Lo fa formalmente, con un meccanismo appositamente inventato per evitare le inchieste internazionali indipendenti. Proprio quelle che il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha chiesto a gran voce. In ogni caso, i vertici militari si sono già auto-assolti, liquidando le centinaia di testimonianze e i resoconti medici come “bugie di Hamas”. Dall’ospedale da campo della Croce Rossa Internazionale a Rafah hanno fatto sapere di aver curato centinaia di persone negli ultimi giorni, tutte con ferite di arma da fuoco e tutte raccontavano di essere stati colpiti dai militari mentre cercavano di arrivare al centro americano. Nei filmati si sente chiaramente il suono degli spari, di quelli dei fucili e dei carri armati.
Ciò che è certo è che anche oggi a Gaza non si mangia. Anche i tre punti della Ghf sono chiusi. Formalmente per consentire “lavoro di ristrutturazione, riorganizzazione e miglioramento dell’efficienza”. La realtà è che la fondazione si trova in profonda crisi. È di martedì la notizia che la Boston Consulting Group (Bcg), una delle principali società di consulenza degli Stati uniti, ha interrotto la sua collaborazione con la Ghf. Secondo il Washington Post la Bcg ha lavorato fin dall’inizio gomito a gomito con le autorità di Tel Aviv per plasmare la fondazione secondo le necessità del governo e dell’esercito. E intanto i tentativi di mascherare la direzione israelo-americana dell’ente, utilizzando nomi non direttamente legati allo stato ebraico, sono tutti falliti. Così, la maschera è caduta. Sempre martedì è stato nominato nuovo capo dell’ente il reverendo Johnnie Moore, un leader evangelico collaboratore del presidente Donald Trump. Moore, che sostituisce il dimissionario Jake Wood, ha espresso parole di apprezzamento per il piano di pulizia etnica che il tycoon ha chiamato la “riviera di Gaza” e ha accusato l’Onu di diffondere le bugie del “terrorismo” per aver denunciato la strage di palestinesi in fila per il cibo. Pagine Esteri