Questo articolo è stato pubblicato il 7 giugno dal quotidiano Il Manifesto

La sua posizione sul confine con l’Egitto ha reso Rafah strategica per il valico omonimo, l’unica porta di accesso di Gaza verso il mondo arabo. Fondamentale anche per i traffici clandestini – attraverso centinaia di gallerie sotterranee – di merci di ogni tipo, comprese le armi, prima che l’intervento dell’esercito egiziano ne interrompesse in gran parte l’attività. Ma Rafah è stata anche un laboratorio del salafismo jihadista: il gruppo Jund Ansar Allah, guidato da Abdel Latif Musa, proclamò il 14 agosto 2009, nella moschea di Ibn Taimiya, un «Emirato islamico» a Rafah, denunciando Hamas che in quanto parte dei Fratelli Musulmani, riteneva «troppo moderno e moderato» e «poco conforme alla sharia».

Hamas, che aveva preso il controllo della Striscia due anni prima, annientò Musa e i suoi fedelissimi dopo giorni di combattimenti che provocarono decine di morti. In quegli ambienti di fanatismo religioso, vicini per ispirazione all’Isis contemporaneo, Israele – ma anche la wahabita Arabia saudita, nemica «ideologica» di Hamas – hanno nel corso degli anni cercato potenziali alleati o collaborazionisti per minare l’autorità del movimento islamista e condurre attività di sorveglianza e spionaggio.

D’altronde, alle porte di Rafah, nella località di Dahaniya, è esistito per anni un «villaggio per spie e traditori», circondato da filo spinato e protetto da un presidio militare israeliano (ne esisteva un altro in Cisgiordania, nei pressi di Jenin). Il «villaggio» ospitava famiglie beduine, in particolare membri della tribù Tarabin, fuggite a Gaza dopo la restituzione del Sinai all’Egitto, perché sospettate di aver collaborato con Israele dopo l’occupazione nel 1967. A queste si aggiunsero nel tempo numerosi collaborazionisti palestinesi a rischio di essere scoperti, ai quali venivano garantiti permessi di lavoro in Israele e altre forme di protezione. Nel 2005, con il ritiro israeliano da Gaza, fu deciso di evacuare Dahaniya: 65 famiglie furono trasferite, alcune in Israele, dove ottennero la residenza ufficiale e continuarono a collaborare con i servizi di intelligence. I collaborazionisti presenti nel campo in Cisgiordania, invece, erano stati mandati anni prima a Nazareth, suscitando proteste tra la popolazione palestinese.

Yasser Abu Shabab, membro della tribù Tarabin, citato nelle ultime ore come il capo della milizia armata sostenuta da Benyamin Netanyahu in funzione anti-Hamas e per la futura «sicurezza» di Gaza, rappresenta solo l’ultimo di una lunga serie di tentativi – perlopiù falliti, talvolta riusciti – di Israele di creare gruppi armati alleati per «governare i palestinesi». Poco più che trentenne, Abu Shabab è stato descritto come un salafita e come comandante delle cosiddette Forze Popolari. In realtà è un ben noto criminale a capo di una banda dedita a furti e omicidi da anni, ora impegnata ad assaltare camion e magazzini contenenti aiuti umanitari destinati alla popolazione civile, per rivendere le merci al mercato nero a prezzi esorbitanti. Prima del 7 ottobre, Abu Shabab era stato incarcerato da Hamas con l’accusa di furto e traffico di stupefacenti. È tornato in libertà grazie ai bombardamenti israeliani che hanno distrutto gran parte delle strutture civili di Gaza, comprese le prigioni. Al suo comando ci sarebbero 200-300 uomini, armati di fucili Ak-47 (Kalashnikov) e vestiti con uniformi di una sedicente «Unità antiterrorismo». Non tutti apparterrebbero alla tribù Tarabin, che ha preso ufficialmente le distanze dalle azioni di Abu Shabab.

Cosa sarà dell’ultima creazione dei servizi segreti israeliani si vedrà nel prossimo periodo. Pochi credono che Abu Shabab sarà in grado, come spera Netanyanu, di limitare l’influenza di Hamas. In ogni caso la vicenda conferma che le milizie alleate restano un pilastro della strategia di «sicurezza» assieme alla logica della divisione settaria, che oggi si manifestano in modo drammatico anche in Siria. Il caso più strutturato resta quello del Libano del Sud, dove a partire dagli anni ’70 Israele sostenne, armò e finanziò milizie cristiane maronite e, in seguito, l’Esercito del Libano del Sud (Els), creando una zona cuscinetto sotto controllo fino al 2000.

In questo contesto nacque la collaborazione con Saad Haddad, ufficiale dell’esercito libanese che, con l’appoggio israeliano, disertò e fondò nel 1979 l’Esercito del Libano Libero, trasformato poi nell’Els: una forza apertamente antipalestinese e anti-Hezbollah, armata, addestrata e finanziata da Tel Aviv. Con quartier generale a Marjayoun, l’Els controllava villaggi e valichi, collaborava a interrogatori e operazioni di repressione. Centrale, sempre in Libano, è stata anche l’alleanza di Israele con la destra falangista, responsabile del massacro di 3.000 palestinesi a Sabra e Shatila nel 1982.

La risonanza internazionale di quella enorme strage ebbe scarso effetto su Israele. Il sud del Libano rimase per altri due decenni sotto un regime di occupazione per procura, con l’Els a svolgere il ruolo di forza di polizia, esercito e braccio repressivo. Organizzazioni come Amnesty e Human Rights Watch hanno documentato gravi violazioni dei diritti umani da parte dell’Els sistematicamente minimizzate da Israele. Nel maggio 2000, dopo 22 anni di presenza militare, il primo ministro Ehud Barak ordinò il ritiro unilaterale dal sud del Libano e la milizia filo-israeliana crollò in pochi giorni. Circa 6.000 tra membri e familiari dell’Els si rifugiarono in Israele, ottenendo in parte la cittadinanza o permessi di soggiorno. Alcuni ex ufficiali vivono ancora oggi in Galilea e collaborano con l’intelligence e le forze armate israeliane.