di Bishoy KalenyAl Akhbar

Analisi senza azione

Un modello ricorrente negli ambienti attivisti egiziani è la convinzione di poter comprendere la realtà da lontano, senza confrontarsi direttamente con le sue contraddizioni. L’analisi diventa fine a se stessa – articoli, opinioni, rapporti – prodotta senza chiari meccanismi di intervento o senza porsi le domande difficili: “Cosa dobbiamo fare? Come possiamo creare un impatto?”.

Questa separazione trasforma la politica in un esercizio culturale di consapevolezza, piuttosto che in un campo di battaglia che richiede pratica, sperimentazione e impegno nelle relazioni sociali reali. Ma la realtà non si rivela attraverso intenzioni o idee astratte. Le forze egemoniche che producono oppressione non possono essere comprese da lontano; devono essere affrontate. La vera conoscenza del mondo cresce attraverso il cambiamento, l’azione, i tentativi e gli errori, non attraverso osservazioni distaccate o teorizzazioni speculative.

Questa separazione crea una classe di attivisti altamente analitici che non dispongono di strumenti di influenza. La loro conoscenza diventa una forma di capitale simbolico del tipo “io sono più consapevole di te”, piuttosto che un veicolo di trasformazione.

Identità più che classe: frammentazione della lotta

Rispecchiando contesti simili a livello globale, il lavoro politico in Egitto tende a dare priorità alle lotte identitarie (genere, sessualità, cultura, religione, ecc.) rispetto ai più ampi conflitti sociali e di classe. Sebbene le lotte identitarie non siano prive di importanza o intrinsecamente secondarie, il loro distacco dall’analisi economica e di classe indebolisce entrambe.

Spesso il discorso sull’identità richiede un conformismo linguistico. Chi non è in grado di articolare la propria sofferenza viene escluso. Il risultato è che le questioni identitarie sono inquadrate come battaglie culturali o semantiche giocate in arene simboliche come i media, l’arte e il linguaggio. D’altra parte, i principali motori dell’oppressione vengono ignorati.

Invece di integrare le lotte identitarie in un progetto di liberazione globale, esse vengono isolate all’interno di piccoli circoli di attivisti e partiti, rendendo più facile per le autorità ignorarle o cooptarle nella logica del mercato e del falso pluralismo.

Concentrandosi sull’identità piuttosto che sulla classe, la politica attivista diventa frammentata e priva di direzione, incapace di costruire ampie coalizioni o di lanciare un progetto trasformativo che colleghi le lotte quotidiane ai sogni più ampi di dignità e libertà. Peggio ancora, riproduce le dinamiche di potere all’interno dei movimenti, creando nuove gerarchie basate sulla purezza dell’identità o sulla correttezza linguistica.

Manifestazione degli operai delle fabbriche tessili a Mahalla al Kubra (Foto: Egyptian Streets)

Sensibilità della borghesia urbana: il sé prima di tutto

Una caratteristica sorprendente dell’attivismo in Egitto è la presenza schiacciante di un segmento borghese urbano, spesso proveniente da contesti professionali ed educativi privilegiati. Questi attori spesso proiettano i loro problemi individuali (espressione di sé, autonomia, stile di vita) come priorità universali.

Sebbene queste libertà siano importanti, il loro inquadramento è spesso scollegato dalla violenza strutturale della povertà, della disoccupazione e della crisi abitativa. Così, la lotta per la libertà di vestirsi come si vuole o di condurre uno stile di vita anticonformista diventa la narrazione centrale, mentre questioni come i salari, i diritti alla casa, l’istruzione e i trasporti pubblici sono viste come “poco eccitanti” o “meno radicali”.

Questo gruppo resiste all’idea di una prioritizzazione strategica. Le critiche vengono accolte con accuse di “maschilismo” o “discriminazione”. Questo individualismo, ammantato da un discorso progressista, produce una sorta di narcisismo politico che fa dell’io il centro di ogni analisi. La liberazione non è vista come un progetto collettivo che include altri diversi da sè, ma come uno spazio personale da difendere a tutti i costi.

Il paradosso è che, nonostante l’ostilità al potere, questa mentalità si allinea ad esso su un piano fondamentale: entrambi escludono la lotta di classe e sociale e lavorano per ridefinire la politica come un affare culturale, linguistico e morale, piuttosto che un progetto per cambiare l’equilibrio materiale del potere nella società.

Una rottura con la memoria: trascurare l’eredità politica dell’Egitto

Negli ultimi due decenni si è consumata una rottura quasi totale con la memoria storica delle lotte politiche egiziane. Questa rottura non è una semplice amnesia accidentale, ma una posizione deliberata e ideologica che rende possibile un senso di superiorità sulla storia nazionale, insieme a un’eccessiva ammirazione per l’eredità politica e intellettuale dei movimenti occidentali.

Nonostante la ricca storia politica dell’Egitto, che va dalla rivolta degli Urabi, alla rivoluzione del 1919, alla resistenza all’occupazione, all’esperimento repubblicano sotto Abdel Nasser, ai movimenti operai e studenteschi degli anni Settanta, questa eredità è spesso esclusa dalle narrazioni degli attivisti contemporanei. È vista come “antiquata”, “reazionaria”, “nazionalista” o incompatibile con la sensibilità del moderno discorso progressista che preferisce concentrarsi sul ‘sé’ e sulla “liberazione personale” piuttosto che sulla “liberazione nazionale” o sulla “giustizia sociale”.

Al contrario, movimenti come i Gilet Gialli, Occupy Wall Street o le ondate femministe occidentali vengono glorificati, mentre i quadri teorici di Foucault, Sartre, Butler e Deleuze vengono importati come tali e imposti alla realtà egiziana senza un adattamento critico. Queste teorie diventano lo standard del progressismo, mentre esperienze locali come la rivoluzione del 1919 o il programma di sviluppo di Abdel Nasser vengono liquidate come reliquie di un’epoca passata o inadatte al discorso odierno della “libertà individuale”.

Il pericolo di questo approccio non è solo simbolico, ma porta a un’effettiva incapacità di mobilitazione. La storia politica locale può essere un’enorme fonte di motivazione e di spinta, parlando un linguaggio familiare alla gente ed evocando simboli e posizioni direttamente collegati alle loro vite ed esperienze. Quando questo patrimonio viene ignorato, l’attivismo diventa isolato, parlando un linguaggio elitario che non crea ponti con la società più ampia. La memoria collettiva, invece di essere una risorsa di mobilitazione, viene sostituita da una memoria presa in prestito, rafforzando le divisioni di classe e culturali tra gli attivisti e il pubblico in generale.

La rottura con l’eredità politica egiziana è quindi una rottura con le condizioni stesse che rendono possibile l’azione politica. Qualsiasi serio progetto di trasformazione richiede di fondarsi sulla storia, non per glorificarla, ma per comprenderla, criticarla ed espanderla. Senza di ciò, l’azione politica rimane fragile e sradicata, dipendente da concetti importati piuttosto che da quelli autogenerati, e affidata a simboli presi in prestito piuttosto che recuperati.

L’attivista Alaa Abdel Fattah, preso di mira ripetutamente dal regime di El Sisi

Dalla politica come significato alla politica come onere

Infine, c’è una crisi di motivazione. Emerge una profonda lacuna nella capacità delle correnti di sinistra e della società civile di generare autentiche motivazioni morali che spingano gli individui a persistere, impegnarsi e resistere sotto un regime repressivo di lunga data.

L’azione politica in Egitto non può essere né leggera né gratuita; è irta di rischi, spesso non è gratificante e potrebbe non produrre risultati tangibili per decenni. In un simile contesto, la consapevolezza politica o la convinzione intellettuale da sole non sono sufficienti. Senza un fondamento emotivo e simbolico, l’impegno crolla, l’entusiasmo si trasforma in disperazione e la politica diventa una fase passeggera piuttosto che una lotta prolungata.

Qui sta il netto contrasto tra ciò che i movimenti islamisti sono riusciti a costruire e ciò che la sinistra non è riuscita a realizzare. A prescindere dal loro contenuto politico, hanno offerto un universo morale: simboli, storie, sacrifici e scopi, alimentando un’immaginazione legata alla giustizia, alla verità, alla pazienza e alla lotta armata. Tutto ciò ha generato un’elevata capacità di disciplina, resistenza e sacrificio, anche sotto una dura repressione.

Al contrario, la sinistra egiziana ha sofferto di un impressionante vuoto morale. All’analisi intellettuale è stata data priorità assoluta, mentre le dimensioni simboliche ed emotive sono state cancellate. Per molti esponenti della sinistra, l’azione politica è diventata un compito gravoso, privo di significato al di là di sé stessi. Non c’erano promesse, né immaginazione, né una grande narrazione che ispirasse, né la sensazione che l’individuo fosse parte di un progetto più ampio. Solo analisi della situazione, diagnosi delle crisi, racconto delle sconfitte e, a volte, umorismo ironico per affrontare l’assurdo.

Che cosa si deve fare?

Non si tratta di una semplice critica agli attivisti o alle loro intenzioni, ma della disamina di una crisi più profonda che riguarda la natura stessa dell’azione politica praticata da ampi settori di attivisti nell’ambito della sfera civile e dell’opposizione egiziana. È una crisi segnata dall’assenza di organizzazione, dal distacco dalla realtà, dalla frammentazione dell’identità, dal rifiuto delle priorità, dal fascino della centralità dell’Occidente, dalla perdita di motivazioni morali e dalla rottura con l’eredità locale della lotta.

Non si tratta di semplici errori tecnici o di segni di incompetenza politica. Riflettono una pratica strutturalmente difettosa, che opera al di fuori delle condizioni della politica reale, producendo un’azione che non minaccia alcun rapporto di potere, non costruisce alcuno slancio, non attira alcun sostegno popolare e non genera alcuna coscienza che possa tradursi in un progetto trasformativo significativo.

Di fronte a questa impasse, la domanda su cosa fare diventa sempre più urgente. Dobbiamo ripensare il significato della politica: Qual è il suo scopo? Come viene praticata? A chi si rivolge? Come la sosteniamo? E su quali basi deve poggiare per andare oltre la performance individuale, il narcisismo simbolico e la sconfitta perpetua?

Forse il punto di partenza è riconoscere che la politica non si pratica nel vuoto e che nessun atto trasformativo può radicarsi se non si collega alla realtà delle persone, alle loro contraddizioni quotidiane, alla loro memoria, alla loro immaginazione, ai loro bisogni e al loro linguaggio.

L’organizzazione non è un lusso ma una necessità. La storia locale non è un peso ma una risorsa. Questa lotta non avviene solo a livello di discorso, ma nei reali rapporti di forza. E che l’impegno non è una questione di etica personale, ma un’energia collettiva che deve essere costruita, alimentata e sostenuta da una visione e da un significato.

Senza questa presa di coscienza, resteremo bloccati in cicli di retorica politica: rumorosi ma impotenti, presenti ma inefficaci.