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Tre secchi d’acqua grigia e una bacinella rotta. È tutto ciò che resta a una famiglia di dieci persone rifugiata in una tenda nel campo profughi di Nuseirat per lavarsi, lavare le stoviglie e – quando è possibile – i panni. «Sono tre mesi che non laviamo le coperte. Fa caldo, si dorme male e ci si ammala», racconta una donna piegata dalla fatica, mentre versa a mani nude qualche cucchiaiata d’acqua sulla testa del figlio. Quell’acqua, raccolta da un punto di distribuzione vicino, verrà poi riutilizzata per piatti e indumenti.
Dopo 21 mesi di offensiva militare e quattro di blocco imposto da Israele, la Striscia di Gaza è entrata in una fase estrema di emergenza idrica e sanitaria. Il territorio palestinese, martoriato dai bombardamenti e assediato dall’esercito israeliano, soffre da mesi la carenza acuta di acqua potabile, aggravata dalla mancanza cronica di carburante per alimentare pozzi, impianti di desalinizzazione e servizi igienico-sanitari.
Secondo un rapporto diffuso questo mese dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), la scarsità d’acqua ha già effetti “devastanti sulla salute pubblica” della popolazione. Epidemie di diarrea e ittero si stanno diffondendo nei rifugi sovraffollati, dove migliaia di famiglie vivono accalcate, stremate dalla fame e senza accesso a condizioni igieniche minime. I rifiuti si accumulano e i servizi fognari, senza elettricità, non funzionano più: un disastro ambientale e sanitario che minaccia milioni di persone.
Il portavoce dell’UNICEF, James Elder, ha dichiarato che «se fosse consentito l’accesso all’elettricità per gli impianti di desalinizzazione, la crisi idrica a Gaza potrebbe essere risolta nel giro di 24 ore». Ma il carburante – necessario per far funzionare i generatori – entra con il contagocce, bloccato dalle autorità israeliane o intrappolato in meccanismi di distribuzione all’interno della Striscia.
L’accesso alle fonti d’acqua resta fortemente limitato nelle aree sotto controllo diretto dell’esercito israeliano. In alcune zone del sud e del centro, come Khan Younis e Deir al Balah, l’acqua è disponibile solo per pochi minuti al giorno – quando arriva. A Nuseirat, uno dei campi storici dei rifugiati palestinesi, domenica scorsa una fila di civili in attesa davanti a un punto di distribuzione è stata colpita da un missile. L’esercito israeliano ha dichiarato che l’attacco mirava a un gruppo di miliziani, ma che il razzo avrebbe deviato dalla traiettoria. Le vittime erano uomini e donne disarmati, tra loro anche bambini. Cercavano solo acqua.

Gaza acqua 2
L’OCHA denuncia che la mancanza di carburante colpisce duramente anche i servizi di raccolta dei rifiuti e di gestione delle acque reflue. In un territorio piccolo e densamente popolato come Gaza – dove oltre due milioni di persone sono ammassate su appena 365 chilometri quadrati – ogni ritardo, ogni carenza, può trasformarsi in una minaccia di morte. La contaminazione dell’acqua residua è già un fatto: l’unica falda acquifera costiera da cui si estrae acqua è infiltrata da liquami e acqua di mare, rendendo il liquido che scorre dai rubinetti inadatto persino all’irrigazione.
Nei rifugi improvvisati, all’interno di tende squarciate dal sole, i genitori cercano di mantenere pulito il poco spazio disponibile spazzando il suolo sabbioso. Ma senza acqua, nemmeno la più semplice delle operazioni quotidiane – lavarsi le mani, lavare un piatto, sciacquare un vestito – può essere compiuta. «È come vivere nella polvere, nella sporcizia. La notte i bambini tossiscono e si grattano per le infezioni alla pelle. I dottori ci dicono di lavare tutto, ma con cosa?», racconta una madre nel campo di Deir al Balah.
Le agenzie delle Nazioni Unite, compresa l’UNRWA, denunciano da settimane una situazione «vicina al collasso totale». In molti rifugi, solo una latrina è disponibile per ogni 200 persone. Le scorte di sapone sono terminate e l’acqua, quando disponibile, viene razionata a meno di tre litri a persona al giorno – ben al di sotto della soglia minima stabilita dall’OMS per la sopravvivenza (che è di 15 litri al giorno). La disidratazione è ormai una minaccia concreta, soprattutto per i bambini e gli anziani.
Il blocco israeliano impedisce anche l’ingresso di materiali e attrezzature per riparare le infrastrutture danneggiate. La rete idrica è stata colpita più volte dai bombardamenti, e in molte zone le tubature sono scoppiate o si sono ostruite, rendendo impossibile anche il trasporto dell’acqua potabile fornita dagli aiuti. I convogli umanitari, peraltro, non riescono a entrare in quantità sufficiente per rispondere al fabbisogno della popolazione.
Nel frattempo, l’estate è arrivata con temperature oltre i 35 gradi. L’acqua, oltre che bisogno primario, diventa arma di sopravvivenza e oggetto di lotta. I bambini corrono dietro ai camion cisterna con bottiglie vuote, mentre si moltiplicano le tensioni e i piccoli furti d’acqua nei campi sovraffollati.
L’assedio idrico è diventato uno strumento letale al pari dei bombardamenti. Un modo silenzioso, ma altrettanto efficace, per logorare un’intera popolazione. James Elder lo definisce «un crimine contro l’infanzia». Ma la comunità internazionale, ancora una volta, resta a guardare.