La foto è di Michele Giorgio

Cinque anni. Tanti ne sono trascorsi da quel 4 agosto 2020 in cui un enorme deposito al porto di Beirut esplose in una nube biancastra e rossa, inghiottendo in pochi secondi 245 vite, distruggendo parte della capitale libanese. Cinque anni in cui le cause del disastro più devastante della storia recente del Libano restano ufficialmente “ignote”. Cinque anni di indagini bloccate, intimidazioni, sospensioni, cavilli legali, accuse incrociate. Eppure, tra le rovine dei silos sventrati che ancora si stagliano sul porto, qualcosa sembra muoversi.

All’inizio del 2025 il ministro della Giustizia Adel Nassar ha riaperto i fascicoli congelati dell’inchiesta sull’esplosione, riaffidandoli al giudice istruttore Tarek Bitar, figura nota per l’ostilità subita da diversi esponenti politici.

A bloccare per anni le indagini è stato un vero e proprio muro di gomma, eretto da parlamentari, procuratori, magistrati e apparati legali. Gli ex ministri Ghazi Zeaiter e Ali Hassan Khalil, membri del Movimento Amal, hanno rifiutato di comparire davanti al giudice. E il giudice Ghassan Oueidat si è pubblicamente rifiutato di riconoscere l’autorità di Bitar, astenendosi da due sessioni investigative nel luglio 2025. Un atteggiamento che ha spinto le organizzazioni per i diritti umani a chiedere la sua rimozione.

Secondo fonti legali, restano tre grandi ostacoli che paralizzano l’inchiesta. Il primo è di ordine internazionale: decine di richieste giudiziarie inviate a paesi europei e arabi – di cui non si conoscono ancora i nomi – sono rimaste senza risposta. Il secondo ostacolo è interno: circa 50 cause legali sono state presentate contro Bitar, 30 delle quali ancora pendenti, tra cui quella dello stesso Oueidat che lo accusa di “usurpazione di autorità”. Infine, pesa l’inerzia della Procura della Repubblica presso la Corte di Cassazione, che deve esaminare il fascicolo prima che possa essere deferito al Consiglio giudiziario.

Nassar, in diverse dichiarazioni pubbliche, ha sottolineato che il tempo non è il fattore decisivo, quanto piuttosto la necessità che la verità venga alla luce in modo completo e credibile. “Uno Stato che non chiede conto ai responsabili del disastro e non chiarisce la verità ai propri cittadini non può affermare di possedere gli elementi di uno Stato vero e proprio”, ha dichiarato. Il ministro ha anche riattivato i contatti con la giustizia francese, che conduce un’inchiesta parallela a causa della presenza di vittime francesi.

Ma cosa si sa oggi, cinque anni dopo, sulla dinamica del disastro?

Il 4 agosto 2020 esplosero 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio immagazzinate nell’Hangar 12 del porto di Beirut. Quel materiale era arrivato nel 2013 a bordo della MV Rhosus, una nave battente bandiera moldava e ufficialmente diretta in Mozambico. Il carico, acquistato dalla società mozambicana FEM, era stato intermediato dalla britannica Savaro Ltd, una società di comodo dietro la quale si nascondeva, come si è poi scoperto, l’ucraino Volodymyr Hlyadchenko.

La nave era stata affittata da una società panamense, la Briarwood Corporation, dietro cui si cela l’imprenditore cipriota Charalambos Manoli, figura già coinvolta in operazioni di bandiera fittizia e traffici poco chiari. Il presunto armatore, Igor Grechushkin, russo residente a Cipro, non era in realtà il proprietario del natante. A oggi, nessuno tra costoro ha mai affrontato un processo.

La quantità di nitrato effettivamente esplosa sarebbe stata di gran lunga inferiore a quella registrata nei documenti ufficiali: forse solo un quinto. Questo ha alimentato il sospetto che parte del materiale sia stata sottratta nel corso degli anni per usi illeciti. Un’ipotesi ancor più inquietante se si considera che la FEM è legata a una rete societaria accusata in passato di traffico illecito di armi e fornitura di esplosivi a gruppi armati, come nel caso degli attentati di Madrid del 2004.

“Solo la verità renderà giustizia alle vittime”, ha dichiarato ancora Nassar. Ma il tempo scorre, e le vittime – i loro nomi, i loro volti – sono ancora confinate nei ritratti incorniciati sui balconi degli appartamenti sventrati. In molte strade di Beirut, le porte e le finestre restano infrante. La centrale elettrica nazionale è ancora in rovina. La ferita più profonda, però, è quella interiore, quella che non si rimargina. Come dice un proverbio libanese, “una brace brucia solo il suo posto”.