Alla vigilia dell’apertura dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ieri quattro governi occidentali hanno scelto di imprimere una svolta, seppur simbolica, alla questione palestinese. Regno Unito, Canada, Australia e Portogallo hanno annunciato il riconoscimento formale di uno Stato palestinese, un passo che colloca nuovamente la soluzione a Due Stati (Israele e Stato di Palestina) al centro del dibattito internazionale nonostante Tel Aviv abbia fatto il possibile per vanificarla nel corso degli anni. La mossa, celebrata a Ramallah e accolta con soddisfazione dall’Autorità nazionale palestinese e da Hamas, ha suscitato invece reazioni furiose da parte del governo israeliano e delle forze politiche sioniste di ogni colore, determinando un’accelerazione dello scontro diplomatico in corso.
“Per ravvivare la speranza di pace per palestinesi e israeliani e di una soluzione a due Stati, il Regno Unito riconosce formalmente lo Stato di Palestina”, ha dichiarato il premier laburista Keir Starmer in un messaggio diffuso in video. Starmer ha sottolineato che il riconoscimento non rappresenta una concessione a Hamas, precisando che il movimento islamista “non può avere alcun futuro, né un ruolo nel governo né nella sicurezza”.
Dal Canada, il primo ministro Mark Carney ha messo in evidenza come l’attuale governo israeliano stia “lavorando metodicamente per impedire che venga mai instaurato uno Stato palestinese”. Il capo del governo australiano Anthony Albanese ha rimarcato la coerenza della scelta di Canberra, legata a un impegno di lungo periodo per la soluzione a due Stati, “l’unica strada per una pace e una sicurezza durature per i popoli israeliano e palestinese”. Il ministro degli Esteri portoghese Paulo Rangel, intervenuto a New York, ha definito la decisione di Lisbona il compimento di “una politica fondamentale e ampiamente condivisa” e ha ribadito che il riconoscimento dello Stato di Palestina è l’unica via per una pace “giusta e duratura” in Medio Oriente.
Oggi è previsto a New York un vertice promosso da Arabia Saudita e Francia, al quale parteciperanno numerosi leader e dal quale potrebbero scaturire ulteriori riconoscimenti formali, tra cui quelli di Francia, Belgio, Lussemburgo, Malta, Andorra e San Marino. Secondo i dati dell’ONU, già tre quarti dei 193 Stati membri riconoscono lo Stato di Palestina, la cui ammissione come “Stato osservatore non membro” risale al 2012.
Il riconoscimento formale da parte di Londra, Ottawa, Canberra e Lisbona si inserisce in un processo già avviato da altre capitali europee, come Spagna e Norvegia, che dall’inizio dell’offensiva israeliana contro Gaza hanno voluto riaffermare la necessità di una prospettiva politica.
Come previsto, le dichiarazioni occidentali hanno scatenato la rabbia del governo israeliano. Il premier Benjamin Netanyahu, parlando prima ancora degli annunci ufficiali, ha promesso una “lotta” contro qualsiasi tentativo di promuovere uno Stato palestinese, definendo tale prospettiva “una minaccia all’esistenza di Israele”. In una dichiarazione video diffusa poche ore dopo, Netanyahu ha accusato i governi che hanno deciso il riconoscimento di aver consegnato “una ricompensa enorme al terrore dopo il massacro del 7 ottobre”. Ha quindi ribadito che “non verrà creato alcuno Stato palestinese a ovest del Giordano” e ha rivendicato i risultati della sua politica di espansione coloniale: “Abbiamo raddoppiato gli insediamenti in Giudea e Samaria e continueremo su questa strada”.
La reazione israeliana si articola in piani di risposta che, secondo indiscrezioni, vanno da misure diplomatiche drastiche, come la chiusura dei consolati dei paesi che hanno riconosciuto lo Stato di Palestina, a mosse di natura territoriale, come l’annessione di parti della Cisgiordania. La stampa israeliana ha rivelato che Netanyahu valuta la possibilità di modificare la classificazione dell’Area B, il 18% del territorio cisgiordano a controllo misto (civile da parte dell’Anp, di sicurezza da parte di Israele), trasformandola in Area C, il 60% della Cisgiordania già sotto pieno controllo israeliano. Altre ipotesi comprendono l’imposizione della “sovranità israeliana” nella valle del Giordano.
Anche l’opposizione israeliana parla di “disastro diplomatico”. Yair Lapid, leader del partito centrista Yesh Atid, ha accusato Netanyahu di aver danneggiato la posizione internazionale di Israele. Da sinistra, Yair Golan dei Democratici ha parlato di “passo distruttivo e dannoso”. Anche il Forum delle famiglie degli ostaggi ha criticato i paesi occidentali per aver riconosciuto la Palestina “ignorando i 48 ostaggi ancora detenuti da Hamas”.
Sul fronte internazionale, fonti diplomatiche israeliane e americane confermano che il governo Trump sostiene pienamente Tel Aviv. Secondo indiscrezioni, il Segretario di Stato Mike Rubio avrebbe dato a Israele il via libera per imporre la sovranità sulla Cisgiordania e adottare misure unilaterali in risposta al riconoscimento. L’amministrazione americana avrebbe inoltre rassicurato Netanyahu che qualsiasi tentativo palestinese di ottenere lo status di membro a pieno titolo dell’ONU sarà bloccato con il veto al Consiglio di sicurezza.
Dal lato palestinese, il presidente dell’Anp Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha definito la decisione dei quattro paesi “un passo importante e necessario verso la pace giusta e duratura”. Hamas, da parte sua, ha accolto con favore il riconoscimento, definendolo un risultato della “lotta e dei sacrifici del popolo palestinese” e ha chiesto che la mossa sia accompagnata da azioni concrete per fermare “il brutale genocidio a Gaza” e contrastare i piani israeliani di annessione in Cisgiordania e Gerusalemme.
Il riconoscimento occidentale non muta immediatamente la realtà sul terreno, segnata dall’occupazione, dall’espansione delle colonie e dalla distruzione della Striscia di Gaza, ma isola ulteriormente il governo israeliano e riporta la questione palestinese nell’agenda diplomatica internazionale. Nelle prossime settimane sarà decisivo capire se la spinta diplomatica riuscirà a tradursi in pressioni concrete o se verrà neutralizzata dalla rete di alleanze che Netanyahu coltiva con Washington e con le destre internazionali.