di Michele Giorgio

(questo articolo è stato pubblicato in origine dal quotidiano Il Manifesto)

Pagine Esteri, 14 ottobre 2023 -«Lasciate le vostre case, è per la vostra sicurezza, tornerete quando ve lo comunicheremo». Queste parole dei soldati israeliani sono stampate nella memoria dei profughi palestinesi del 1948, ancora in vita, che hanno vissuto in prima persona la Nakba, la catastrofe, l’esodo dalle proprie case nel territorio che sarebbe diventato lo Stato di Israele. Una fuga dalla guerra che sarebbe terminata solo in un campo profughi a Gaza, in Cisgiordania o nei paesi arabi. Alle loro case non sono mai più tornati. E quelle parole sono stampate oggi sui volantini piovuti dall’alto giovedì e venerdì tra le case, quelle ancora in piedi, e tra la gente di Beit Lahiya, Beit Hanoun, Jabaliya, Sudaniyeh, Gaza city e tutti gli altri centri abitati a nord del Wadi Gaza, più o meno al centro della Striscia. Soltanto 24 ore di tempo hanno dato i comandi israeliani a un milione e centomila palestinesi che vivono in quella metà di Gaza. 24 ore per dire addio a tutto ciò che si è costruito e vissuto, alla propria casa anche se povera come è povera la vita di quasi tutti nella Striscia.

Safwat Mohammad, 54 anni, è figlio di una coppia di profughi. E’ nato e cresciuto nel campo di Jabaliya. Ma non è povero, possiede un’auto, un appartamento spazioso in un quartiere settentrionale di Gaza city e uno stipendio per vivere tranquillo. Eppure, come migliaia di palestinesi ieri è stato preso dal panico e si è unito a coloro che andavano a sud. «Mi piange il cuore. Amo la mia casa, non volevo abbandonarla. Tra qualche giorno però potrebbe essere un mucchio di macerie e io devo salvare la mia famiglia. Sono certo che Israele attaccherà via terra per distruggere tutto quello che c’è a nord di Gaza city» ci diceva ieri mentre in auto si dirigeva a Deir al Balah. Il figlio Tareq ha una patologia cardiaca seria. «Ho passato ore a cercare il fluidificante del sangue di cui ha bisogno. A Gaza scarseggia l’acqua e mancano il carburante, l’elettricità e le medicine». Safwat teme di sapere cosa accadrà in futuro. «Israele – dice sconsolato – ci vuole affamare e provocare una nuova Nakba, ci spinge verso l’Egitto». Nei volantini sganciati su centri abitati palestinesi oltre all’ultimatum è indicata un’area dove dirigersi all’estremo sud, sul confine con l’Egitto.

A Deir al Balah e Khan Yunis, in giornata sono arrivate altre migliaia di palestinesi con automobili, autocarri, carretti tirati da cavalli e taxi. Quelli meno fortunati senza soldi per pagare un taxi con il serbatoio abbastanza pieno, ieri sera erano ancora in marcia su strade con voragini, distrutte dalle bombe, con i figli piccoli in braccio, con valigie e borse, una bottiglia d’acqua un po’ di abiti e niente più. Quanti si siano messi in cammino dopo l’ultimatum israeliano non è possibile quantificarlo. Dagli altoparlanti delle moschee sono stati lanciati appelli a restare a casa, a non «fare il gioco del nemico. Tenetevi stretti alle vostre abitazioni. Tenetevi stretta la vostra terra». Agenti della polizia e militanti di Hamas inizialmente hanno provato a bloccare il fiume umano, alla fine parecchi sono partiti per il sud. I bombardamenti che fino a ieri sera avevano fatto 1799 morti e migliaia di feriti tra i palestinesi di Gaza lasciano immaginare una campagna militare di terra persino più sanguinosa e distruttiva di quella aerea. E la popolazione è terrorizzata.  Ha lasciato la sua abitazione anche Jacopo Intini, capoprogetto della ong italiana Ciss. «Dopo l’ultimatum – diceva ieri Intini – abbiamo percepito che non eravamo più al sicuro e ci siamo spostati in una scuola delle Nazioni unite nel sud della Striscia. Come tutti quelli che sono con noi, facciamo i conti con una situazione terribile, ai limiti della dignità umana. Non c’è cibo, acqua, elettricità, non ci sono materassi e nel frattempo arrivano altre famiglie». Lapidario l’analista Talal Okal: «Come fecero nel 1948, quando gli israeliani scacciarono gli abitanti dalla Palestina storica lanciando barili di esplosivo sulle loro teste, oggi Israele sta ripetendo la stessa cosa davanti agli occhi del mondo e alle telecamere in diretta».

Il giornalista Ahmed Dremly in un messaggio audio dice che «Questo è il momento più sanguinoso, gli israeliani stanno bombardando intere unità abitative, edifici alti, come le torri palestinesi, che ospitavano 82 famiglie prima che fossero completamente rase al suolo. Quelle famiglie ora non hanno case. Dove dovrebbero andare? Come giornalista sono paralizzato. Niente internet, niente elettricità, laptop guasti, connessione interrotta…Dov’è l’Occidente? Dove sono i diritti umani che predicano? Dov’è il diritto internazionale? Dov’è l’Onu? Questo è un genocidio e dovrebbe essere fermato immediatamente. Non sono sicuro che resterò qui più a lungo, questo potrebbe essere il mio ultimo messaggio».

Tanti palestinesi restano nelle loro abitazioni nel nord di Gaza. Non sanno dove andare, non hanno i mezzi per spostarsi. Più di tutto hanno deciso di non piegarsi a una intimazione che prelude, lo pensano tutti a Gaza, alla distruzione della parte settentrionale della Striscia. «Sono sopravvissuto sino ad oggi, non so perché ma sono sopravvissuto – diceva ieri ai giornalisti Jamil Abu Samadana – al nemico (israeliano), all’America, all’Europa e al mondo dico che il popolo palestinese non sarà sconfitto». Pensano «che ci sarà un altro sfollamento o che potremmo scappare in Egitto. Sciocchezze», ha aggiunto prima di andare all’obitorio dell’ospedale Shifa per identificare i parenti morti in un bombardamento. Contro lo sfollamento forzato in 24 ore intimato da Israele si è proclamato anche il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen che però ieri ha incontrato ad Amman il Segretario di stato Antony Blinken tra la rabbia e lo sgomento della sua gente che negli Stati uniti vede il paese che di fatto ha dato il via libera alla durissima ritorsione israeliana contro Gaza per l’attacco compiuto il 7 ottobre da Hamas che ha ucciso 1400 israeliani.

Le Nazioni unite, l’Oms, le ong internazionali e varie organizzazioni umanitarie hanno condannato l’ultimatum lanciato da Israele, sottolineando gli effetti devastanti che lo sfollamento avrebbe per un milione di civili. Israele ha reagito puntando il dito contro l’Onu. A sera, mentre proseguivano i bombardamenti aerei, il ministero israeliano delle telecomunicazioni ha annunciato che sarebbe stata tagliata ogni connessione internet a Gaza. Agli operatori di Medici senza Frontiere è stato ordinato di lasciare gli ospedali in cui lavorano. L’offensiva di terra poco prima della mezzanotte appariva imminente.