di Giovanna Cavallo*
Il ritorno di un presidente siriano, seppur autoproclamato, sul palco dell’Assemblea Generale dell’Onu, dopo quasi sessant’anni, ha un forte valore simbolico. Ahmad al-Sharaa ha provato a presentarsi come il volto di una Siria diversa, libera dall’incubo della dinastia Assad. Ma dietro la retorica della rinascita, la partita geopolitica resta aperta e complessa.
“La Siria reclama il suo posto tra le nazioni del mondo”. Con queste parole, al-Sharaa ha voluto sancire la rottura con mezzo secolo di autoritarismo e decenni di isolamento internazionale. Ha descritto il crollo del regime di Bashar al-Assad come la fine di una tirannia che “ha ucciso un milione di persone e torturato centinaia di migliaia di cittadini”. Ex comandante di un movimento insurrezionale che in passato aveva legami con al-Qaeda, cerca ora legittimazione politica e diplomatica. Il discorso all’ONU è stato un atto di forte valore politico con il quale ha descritto un Paese martoriato che cerca di rialzarsi. Ma la Siria resta sospesa tra speranza e diffidenza.
Uno dei passaggi più duri del discorso è stato rivolto a Israele, accusato di “non aver mai cessato le minacce contro il nostro Paese” e di mettere “in pericolo la stabilità della regione”. Al-Sharaa ha chiesto un ritorno all’accordo di disimpegno del 1974 e ha evocato un possibile negoziato per il ritiro delle forze israeliane. Ma la risposta di Gerusalemme ha ribadito che qualsiasi intesa dovrà includere la smilitarizzazione del sud della Siria. Un segnale che, anche dopo la caduta di Assad, la Siria rimane al centro delle tensioni regionali e il Golan resta non solo una questione territoriale, ma un nodo strategico di equilibrio regionale. Ma Al Sharaa in realtà crede che senza un minimo di intesa con Israele, la Siria rischia di restare ostaggio delle tensioni regionali, incapace di attrarre investimenti e di sottrarsi alla logica dei conflitti per procura.
Sul fronte interno, il Presidente siriano ha voluto marcare la discontinuità con l’era Assad rivendicando la fine del narco-Stato. “Abbiamo distrutto l’industria del Captagon che finanziava il regime precedente”, ha dichiarato, sottolineando l’impegno del nuovo governo a chiudere fabbriche e canali di traffico. Al tempo stesso, ha chiesto all’Occidente di “revocare le sanzioni che oggi incatenano il popolo siriano”, puntando cosi a ottenere ossigeno economico per un Paese stremato. Ma la realtà è che le misure più pesanti, imposte dal Congresso americano nel 2019, non possono cadere senza un voto politico difficile da conquistare.
Ma dietro la retorica di rinascita, le incognite restano enormi: minoranze druse e alawite denunciano atrocità commesse da milizie vicine al nuovo potere, e le violenze settarie continuano a minacciare la fragile stabilità interna. Le divisioni della diaspora siriana, esplose in manifestazioni contrapposte a New York, mostrano quanto il suo mandato resti controverso. Al-Sharaa ha promesso: “Consegnerò alla giustizia chiunque abbia le mani sporche del sangue del popolo siriano”. Ma senza un autentico processo di giustizia transizionale, queste parole rischiano di restare un annuncio privo di sostanza.
E mentre dunque un presidente siriano torna a parlare all’ONU dopo quasi sessant’anni è altrettanto vero che una parte della società civile siriana, dentro e fuori dal Paese, ha per anni lanciato appelli alla comunità internazionale. ONG, attivisti, avvocati, giornalisti hanno denunciato torture, bombardamenti, sfollamenti di massa, chiedendo protezione e sostegno. Quelle voci, però, sono rimaste marginali. La voce del capo di Stato che si rivolge all’Assemblea Generale, forse sarebbe dovuta essere la vice della transizione ma la legittimità internazionale sembra passare più facilmente dalle parole di un nuovo leader che dalle richieste di chi, in questi anni, ha pagato il prezzo più alto della guerra.
Nuovo inizio o un déjà-vu?
Il discorso all’ONU segna un ritorno simbolico della Siria sulla scena internazionale, ma non ancora il suo reintegro. La credibilità di Ahmad al-Sharaa dipenderà dalla sua capacità di superare tre test cruciali: garantire sicurezza e coesistenza interna, costruire un minimo di rapporto con Israele e attrarre sostegno internazionale attraverso la fine delle sanzioni. Questa ricetta imposta (anche se non direttamente) dall’occidente rischia di intrappolare il paese nel limbo in un momento in cui il sistema multilaterale mostra segni evidenti di logoramento. L’ONU stessa, che avrebbe dovuto essere la sede naturale per risolvere conflitti e legittimare nuove leadership, appare oggi delegittimata, marginalizzata da una diplomazia che si gioca sempre più su tavoli bilaterali.
È il segno di un’epoca neo-imperiale, in cui i grandi attori internazionali stringono accordi di forza e relazioni di potenza in uno scenario di interessi privati. È anche un’epoca di riarmo, in cui il linguaggio della deterrenza sembra aver sostituito quello del diritto internazionale. In questo scenario, un Paese fragile come la Siria non parte con le carte migliori restando in una posizione geopolitica paradossale: abbastanza fragile da rischiare il collasso interno, ma troppo strategica per essere ignorata dalle potenze regionali e globali nel terribile (mai chiuso) gioco di scacchi.
*Analista esperta di Siria