Si apre oggi, lunedì 10 novembre, la Cop30, la trentesima “Conferenza delle Parti” per l’ambiente che annualmente riunisce i 192 Paesi aderenti dal 1992 alla Convenzione delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico. I lavori si svolgeranno fino al 21 novembre nella città di Belém, nello stato di Parà, in Brasile, discusso Paese ospite di quest’edizione. Tra le placide acque del Rio delle Amazzoni che lambiscono le sue colorate case coloniali e gli ultimi problemi logistici da risolvere negli alberghi, in un anno denso di tensioni e violenza, la cittadina soprannominata “la città dei manghi” è pronta – o quasi – ad accogliere leader mondiali, delegazioni, scienziati e attivisti, nello scetticismo globale.
Le sfide delle conferenze per il clima si fanno di anno in anno più grandi e, a ridosso del 2024, l’anno più caldo di sempre, è difficile guardare alla Cop30 con la speranza che possa apportare soluzioni definitive a un pianeta in preda al disastro ecologico. “Ogni frazione di grado centigrado in più significa più fame, più sfollati e più perdite – soprattutto per coloro che ne sono meno responsabili”, ha dichiarato il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres. “Si tratta di un fallimento morale – e di un atto di negligenza letale”. E ha poi sottolineato che la soglia di 1,5°C, il limite all’aumento della temperatura globale rispetto all’era preindustriale che i Paesi della Cop approvarono con l’Accordo di Parigi sul clima nel 2015, rappresenta “una linea rossa per l’umanità”.

Non è facile illudersi, tuttavia, che proprio in questa Cop i Paesi troveranno “soluzioni urgenti per trasformare le proprie economie e proteggere la popolazione”, come auspicato da Guterres. Le ultime tre Cop, che si sono svolte in Paesi con economie largamente basate sui combustibili fossili (Egitto, Emirati Arabi, Azerbaijan), si sono concluse con risultati blandi, nonostante gli allarmi lanciati dagli scienziati. La soglia di 1,5°C appare oggi un miraggio: secondo l’Organizzazione Meteorologica Mondiale, nel 2024 il pianeta ha subito un aumento della temperatura già pari a +1,6°C. Per restare nella soglia che gli Stati della Cop 2015 si erano prefissati, questi dovrebbero abbattere le loro emissioni di gas serra del 65% entro il 2035.
Non c’è motivo di essere scettici, secondo il Presidente del Paese ospite, Luiz Inácio Lula de Silva. È stato lui a scegliere – con una certa insistenza, nonostante le difficoltà logistiche – la città di Belém, poco distante dalla foce del Rio delle Amazzoni e nella culla della foresta amazzonica, come sede ospite della Cop30, perché fosse il simbolo del protagonismo del Brasile nella lotta ai cambiamenti climatici e nella difesa della biodiversità.
“L’epoca dei bei discorsi e delle buone intenzioni è finita”, ha dichiarato Lula, celebrando il ritorno della Conferenza delle Parti nel suo Paese dopo trentatré anni. “Questa sarà la Cop delle azioni”, ribattezzata “la COP della verità”, perché “se falliamo nel trasformare le parole in fatti, la società perderà fiducia – non solo nelle Cop, ma anche nel multilateralismo e nella politica internazionale più in generale”. Una sorta di resa dei conti, insomma, in cui il Brasile si metterà alla guida delle delegazioni per dimostrare la serietà dell’impegno degli Stati nella lotta per l’ambiente. Circondati dalle suggestioni di una foresta pluviale a due passi dalla città, “i leader mondiali dovrebbero prendere come esempio le popolazioni indigene, che vivono in maniera sostenibile a contatto con la natura”.
Proprio a 175 chilometri dalla costa del Rio delle Amazzoni, però, il governo brasiliano ha recentemente concesso nuove licenze alla compagnia energetica statale Petrobras per esplorazioni che potrebbero incrementare l’estrazione petrolifera. I giacimenti del “Margine Equatoriale”, a cui appartiene l’area designata, potrebbero contenere fino a 5,6 miliardi di barili di petrolio, pari a un aumento del 37% delle riserve nazionali attuali. Una scelta in aperta contraddizione con le “parole” che dovrebbero portare ai “fatti” nella lotta per il clima rilanciata da Lula. Contraddizione sulla quale ha dovuto rilasciare una dichiarazione la stessa direttrice esecutiva della Cop30, Ana Tonin, che ha, però, sottolineato come dovrebbero essere i Paesi ricchi i primi a tagliare sui combustibili fossili – ed evidentemente solo in seguito tutti gli altri.

Più che sul taglio del fossile, nell’agenda di Lula è la lotta alla deforestazione la priorità per un cambio di passo nella lotta alla crisi climatica. Negli ultimi due anni effettivamente in Brasile si sono ridotte le emissioni derivanti dalla deforestazione, ma sono aumentate quelle del settore agricolo ed energetico. Con danni enormi in termini di incendi e desertificazione proprio in quel polmone verde amazzonico erto a santuario di questa Cop. Secondo David Tsai, il coordinatore della Brazilian Greenhouse Gas Emission and Removal Estimation System (SEEG), l’iniziativa dell’Osservatorio per il clima che annualmente traccia il trend delle emissioni nel Paese, gli ultimi 15 anni hanno dimostrato come non deforestare non basti e come sia necessario decarbonizzare i settori energetici. “Il governo dovrebbe fare di più in altri settori, e salvare l’Amazzonia non è più una responsabilità unicamente del Brasile”.
Se il Brasile primeggia per le emissioni di CO2 in Sud America, non da meno sono i suoi vicini. Tutti hanno presentato degli NDC (Nationally Determined Contributions), i piani di contrasto alla lotta per il clima che secondo l’Accordo di Parigi ogni Paese deve impegnarsi a elaborare, che il CAT, la piattaforma scientifica internazionale per il Tracciamento dell’Azione per il Clima, ha giudicato “insufficienti”. Il Messico, secondo al Brasile per emissioni, ne ha aumentato il volume del 67% tra il 1990 e il 2022, e non basterà il suo impegno a ridurle del 30% entro il 2030 per stare dentro alla soglia rossa di 1,5°C. Così per l’Argentina, dove nello stesso periodo le emissioni sono aumentate del 46%, con 401 milioni di tonnellate nel solo 2022. In Cile le emissioni sono aumentate addirittura del 135%. Nella quarta economia della regione, la Colombia, l’incremento è stato di circa il 25%, e nonostante i progetti ambiziosi per l’ambiente anche i suoi NDC sono considerati insufficienti.
Per quanto non siano abbastanza per una soluzione climatica, gli impegni di questi Paesi iniziano a farsi più evidenti, a differenza di quanto accade ad altre latitudini. È stato proprio il leader colombiano, Gustavo Petro, a spendere tra le parole più acri nei confronti del Presidente Trump a proposito della lotta climatica: “Il signor Trump è letteralmente contro il genere umano. Vedremo il collasso (ambientale, ndr) che si verificherà se gli Stati Uniti non decarbonizzeranno la loro economia”, ha dichiarato.
Il grande assente di questa edizione della Cop è proprio Donald Trump, che dagli Stati Uniti non invierà nessuna delegazione a partecipare ai lavori per il clima. All’inizio del suo nuovo mandato, il Presidente aveva già fatto ritirare il suo Paese, il secondo maggiore inquinatore globale (dopo la Cina), dall’Accordo di Parigi per il clima. Le sue politiche hanno piuttosto rilanciato la corsa al combustibile fossile e in buona parte tagliato le gambe a qualsiasi progresso mondiale verso una transizione ecologica. Le emissioni di gas serra da parte degli USA nel 2024 si sono ridotte solo dello 0,2% rispetto all’anno precedente. Secondo le stesse parole del tycoon, quella del cambiamento climatico è “la più grande truffa al mondo”.
L’assenza degli USA ai lavori per il clima non è soltanto una poltrona vuota. Senza la loro collaborazione, e anzi con il loro aperto contrasto, a svuotarsi, di senso e di efficacia, potrebbero essere i risultati dell’intera Conferenza delle Parti. Non solo per il disimpegno nella lotta al surriscaldamento globale da parte di uno dei suoi maggiori responsabili, ma anche per gli effetti tentacolari sulle economie e scelte energetiche di una tale politica ambientale negli altri Paesi.
Proprio nelle scorse settimane, ad esempio, gli Stati Uniti hanno fatto fallire un accordo internazionale su una tassa sul carbonio per i trasporti marittimi, “una nuova truffa verde” secondo Trump, che ha minacciato sanzioni ai Paesi che l’avevano sostenuta. Secondo il New York Times, inoltre, l’amministrazione Trump starebbe utilizzando gas e petrolio come strumento diplomatico, inducendo i governi a impegnarsi nell’acquisto massiccio dagli USA di fonti non rinnovabili in cambio di supporto economico e militare. Persino i miliardari statunitensi storicamente impegnati nelle lotte ambientaliste sotto Trump hanno ridimensionato o silenziato del tutto la loro advocacy, e lo stesso Bill Gates ha recentemente pubblicato un memorandum in cui minimizzava il surriscaldamento globale e invitava, invece, a investire piuttosto nel contrasto alla povertà nei Paesi in via di sviluppo – senza menzionare il fatto che insieme alle guerre la maggiore causa di sfollamenti e carestie è proprio la catastrofe ambientale. L’effetto Trump rischia così di minare qualsiasi risoluzione più coraggiosa per il clima che possa essere proposta dagli altri Paesi.
Non troppo più virtuosa è l’Unione Europea, che retrocede piuttosto che avanzare nella lotta al cambiamento climatico. Gli NDC dell’UE per la Cop30 sono stati consegnati in extremis e sembrano tutt’altro che incisivi e rivoluzionari. L’UE si impegna, sì, a ridurre del 90% le emissioni di gas serra entro il 2040, ma “con flessibilità” e “non con l’unanimità” degli Stati membri, e con un target entro il 2030 del 55%: un obiettivo troppo modesto – oltre che non ben dettagliato e “flessibile”, appunto – che secondo gli esperti lascia difficilmente sperare che si riesca a rientrare nella red line del +1,5°C sulla temperatura globale.
L’Italia, che a Belém rappresenterà “l’impegno italiano per la soluzione climatica” con un ampio padiglione diviso in due aree, “Made for our future” e la piattaforma galleggiante “AquaPraça”, insieme al Brasile sosterrà la proposta di incrementare la produzione di biocarburanti entro il 2035. Se i combustibili fossili, che tutti i Paesi del mondo “sviluppato” continuano a sovvenzionare, sono responsabili del 70% dei gas serra, la soluzione ecologica avallata da molti membri della Cop30 è proprio quella di rilanciare al loro posto i biocarburanti. Una risorsa “naturale”, biomasse derivanti da residui agricoli e scarti organici, e pertanto considerata, o rappresentata, come la nuova frontiera energetica “ambientalista”, soprattutto da quei Paesi con maggiori interessi nel settore – il Brasile è uno dei principali produttori di biofuels. Gli attivisti per l’ambiente e gli scienziati, tuttavia, su questa soluzione mettono in guardia e iniziano anzi a parlare di “trappola dei biocarburanti”.
Secondo uno studio della ONG Transport and Environment, infatti, la produzione di biocarburanti, dalla coltivazione alla combustione, comporterebbe l’emissione del 16% di CO2 in più rispetto ai combustibili fossili. La corsa al biocarburante determinerebbe l’imposizione di monocolture contribuendo a cancellare la biodiversità e sottrarrebbe terreni impiegati per la produzione alimentare. Per non parlare delle quantità di acqua che le colture per i biocarburanti richiederebbero, in uno scenario di crisi idrica globale. Secondo Andreas Sieber, dell’organizzazione ambientalista internazionale 350.org, “presentare i “carburanti sostenibili” come un pilastro alla pari delle energie rinnovabili è fuorviante” e potrebbe piuttosto comportare ulteriori danni ambientali e insicurezza alimentare. “È particolarmente preoccupante”, ha aggiunto, “vedere Paesi come l’Italia e il Giappone aderire a questa iniziativa e cooptare questa narrazione per convenienza industriale o politica. Questa non è leadership climatica, è una pericolosa distrazione“.
Sul lungofiume del Rio delle Amazzoni, gli attivisti di Oxfam intanto hanno indossato le teste giganti caricaturali dei leader mondiali, tra i quali Trump e Lula, per imitarli intenti a rilassarsi sulle amache e a leggere i giornali, mentre il pianeta collassa in preda alla crisi climatica. “I leader mondiali stanno dormendo”, ha dichiarato Viviana Santiago, direttrice di Oxfam Brasile, una delle tante ONG che in questi giorni protesteranno contro una Cop che si preannuncia meno risolutiva che mai e chiederanno, invece, azioni incisive per salvare l’ambiente dal baratro verso il quale sta precipitando.
Poco distanti dalla nave di Greenpeace, che con striscioni chiede “Azione” e “Speranza”, due navi da crociera accoglieranno nelle loro cabine buona parte dei delegati che parteciperanno agli incontri della Cop nelle prossime due settimane. Una delle soluzioni estreme adottate dal governo brasiliano per ospitare i partecipanti in arrivo da tutto il mondo in una città non attrezzata strutturalmente per riceverli. Tra le altre, anche l’equipaggiamento di scuole e caserme e addirittura la proposta di realizzare tende climatizzate. E visti i pochi alberghi pubblicizzati sui siti ufficiali governativi a costi stellari e le scarse alternative di soggiorno, i Paesi africani già durante l’estate erano stati costretti a chiedere un vertice d’emergenza per risolvere il problema. A cui il governo brasiliano aveva risposto con la promessa di trovare anche stanze più modeste da 100 o 200 dollari per i delegati dei Paesi meno abbienti. L’ennesima dimostrazione, dal macro delle responsabilità dell’inquinamento al micro della logistica spicciola, che la crisi ambientale continua ad essere anche questo: un altro teatro in cui si disvelano platealmente le diseguaglianze globali. Pagine Esteri
















