Due anni dopo l’arrivo di Javier Milei alla Casa Rosada, la narrazione dominante racconta un’Argentina che avrebbe finalmente “rimesso ordine ai conti” e trovato una strada per uscire dal caos economico degli anni precedenti. È una storia comoda, utile, rassicurante, che rimbalza tra i grandi gruppi mediatici e gli attori economici del paese, fino a riflettersi nelle analisi di quei centri internazionali che vedono con favore qualsiasi governo disposto a fare ciò che altri non hanno il coraggio di fare: tagliare, privatizzare, comprimere, disciplinare. Ma la realtà, osservata al di fuori del recinto retorico costruito dal presidente e dai suoi alleati, racconta qualcosa di molto diverso. Racconta un paese più fragile, più diseguale, più impoverito. Racconta una stabilità artificiale pagata con il dolore sociale. Racconta un’economia che non si sta riprendendo: si sta semplicemente adattando ai colpi ricevuti.

Prima ancora che Milei vincesse le elezioni, quasi tutti gli analisti erano convinti che Sergio Massa avrebbe prevalso al ballottaggio. La vecchia politica, pur logorata, appariva ancora dotata di una forza d’inerzia sufficiente a fermare un outsider radicale, senza partito e privo di una classe dirigente dietro di sé. La sorpresa, a novembre 2023, fu perciò tanto politica quanto sociologica: Milei vinse perché la politica tradizionale era ormai incapace di rappresentare un paese stremato. Il Frente de Todos, dopo anni di gestione tentennante e contraddittoria, si presentava come il simbolo di uno Stato trasformato in un bancomat dalle burocrazie di partito. PRO e UCR erano percepiti come gli amministratori di un sistema che da tempo non garantiva mobilità sociale, né servizi, né sicurezza economica. Soprattutto, erano partiti percepiti come incapaci di assumersi la responsabilità dei propri fallimenti. In questo vuoto, Milei si è inserito scavando negli errori altrui, denunciando la casta, indicando nello Stato il grande nemico, incarnando la rabbia di chi aveva già smesso di credere alla politica prima ancora di smettere di votarla. Ma le politiche del governo Milei, invece che colpire la casta, le grandi famiglie imprenditoriali e i potenti del paese, hanno attaccato le politiche sociali, tagliato le pensioni, ridotto l’accesso alla scuola e alla sanità, imposto discorsi d’odio e di violenza. L’attacco di Milei è stato rivolto a chi lavora, a chi è in pensione, a chi difende l’ambiente e i diritti di genere. La casta per Milei, non era la casta: erano i poveri e le povere.

I due anni successivi sono stati l’applicazione feroce di questa lettura del mondo. Per costruire la promessa del “deficit zero”, Milei ha tentato di trasformare lo Stato nella sua nemesi: un apparato da svuotare, smontare, ridurre a dimensione minimale. Il taglio della spesa non è stato un dettaglio tecnico, bensì l’asse politico dell’intero progetto. E sono stati proprio i tagli a rivelare il vero volto del mileismo, perché hanno colpito in modo diretto ciò che qualsiasi economia minimamente solidale considera irrinunciabile: il sistema pensionistico, i salari pubblici, la scuola, la salute, la ricerca, i trasporti, i sussidi che tengono in vita milioni di persone. Questo ha abbassato il tasso di inflazione, allargando però le maglie della povertà e lasciando più sole le persone. In molte province, dal nord impoverito fino al conurbano bonaerense, il taglio dei servizi e dei trasferimenti ha prodotto un crollo della qualità della vita che nessuna statistica sull’inflazione può occultare.

Il cuore dell’operazione è stato il trattamento delle pensioni. Il governo le ha ridotte in termini reali attraverso un meccanismo semplice nella sua brutalità: l’inflazione correva oltre il 250% annuo nel primo semestre del 2024, mentre gli adeguamenti alle pensioni seguivano criteri ritardati, depotenziati e scollegati dal costo reale della vita. In due anni, il potere d’acquisto dei pensionati si è ridotto di oltre il 30%. Centinaia di migliaia di persone, che già vivevano ai margini, sono state precipitate nella povertà assoluta. È importante comprendere cosa significhi questo: nel modello di Milei, i pensionati non rappresentano una categoria sociale vulnerabile, ma un costo. Il loro impoverimento non è un effetto collaterale: è uno degli strumenti utilizzati per tenere artificialmente bassi i prezzi interni e comprimere la domanda. È parte della strategia generale. La riduzione dell’inflazione, che da dicembre 2023 a ottobre 2025 è scesa dal 25,5% mensile al 2,3%, non è stata frutto di una “cura” economica virtuosa: è stata la conseguenza diretta della caduta del potere d’acquisto di milioni di persone. Una società che non consuma non genera domanda, e una domanda che non esiste abbassa i prezzi. È una stabilità drogata, ottenuta con strumenti che nessuna economia avanzata potrebbe considerare sostenibili.

Questa compressione violenta dei redditi non ha riguardato solo i pensionati. Tutti i salari pubblici sono stati congelati o ridotti in termini reali. I sussidi ai trasporti e all’energia, fondamentali per la vita quotidiana dei più poveri, sono stati tagliati. I servizi sociali sono stati smantellati o depotenziati. L’opera pubblica, tradizionale motore anticiclico dell’economia argentina, è stata paralizzata. Il risultato è stato immediato: la povertà, che aveva fatto registrare un temporaneo calo nel 2024 per effetto della disinflazione, è tornata a crescere appena è svanito quell’effetto statistico. Perché le persone non vivono di percentuali, vivono di ciò che hanno in tasca. E in tasca, in questi due anni, hanno avuto sempre meno. Il consumo interno è evaporato, i negozi hanno chiuso, l’industria è entrata in una delle peggiori crisi della storia recente. A settembre 2025, la capacità produttiva operativa era appena del 61%. Dal 2023 hanno chiuso più di 19.000 imprese e si sono persi oltre 276.000 posti di lavoro. Un paese che si deindustrializza mentre riduce la spesa sociale non può che generare più vulnerabilità, più disuguaglianza e più dipendenza dall’estero.

È qui che emerge con chiarezza il meccanismo che regge l’intero mileismo: per abbassare l’inflazione si è scelta la strada più regressiva, quella di schiacciare la società, non di ristrutturare l’economia. Non è stato affrontato nessuno dei nodi strutturali: non il sistema fiscale regressivo, non la concentrazione economica, non la mancanza di credito produttivo, non la fragilità del mercato interno. Si è scelta invece la via più rapida, quella che produce un effetto immediato, che può essere comunicato con facilità e venduto come successo: ridurre la capacità delle persone di vivere. È questo che significa dire che l’economia è stata drogata: è stata portata artificialmente in una condizione di congelamento, non di guarigione. Come un paziente sedato, l’Argentina oggi sente meno dolore solo perché le è stata tolta la possibilità di muoversi.

È dentro questa dinamica che si colloca il trionfo parlamentare di Milei nel 2025. Non è stata una vittoria fondata su un’adesione massiccia al progetto libertario, quanto piuttosto il riflesso della crisi profonda delle alternative. Con un’affluenza al minimo storico del 67,8%, La Libertad Avanza diventa il primo partito del paese. Vince nel deserto, conquista i territori che la politica tradizionale ha abbandonato, si impone in una Provincia di Buenos Aires che per decenni aveva rappresentato il cuore pulsante del peronismo. Milei non ha bisogno di convincere la maggioranza degli argentini: gli basta occupare il vuoto lasciato da chi ha governato prima di lui. È qui che si rivela la natura dell’egemonia libertaria: un potere forte istituzionalmente, ma costruito su una società sempre più debole.

Ora che Milei dispone di un Parlamento più favorevole, i prossimi due anni si preannunciano come una fase di accelerazione. Riforma del lavoro, riforma fiscale, ulteriore riduzione del perimetro dello Stato: tutto indica che il governo intende approfondire la traiettoria intrapresa. Se per imporre la sua “motosega” ha dovuto usare decreti d’urgenza, ora può andare più pesante e più rapido nella sua direzione. La Libertad Avanza ha cannibalizzato tutta la destra ed è diventata il primo partito d’Argentina. Le opposizioni partitiche sono ridotte ai minimi storici; solo i movimenti sociali continuano a resistere, ma con maglie della precarietà e della povertà sempre più larghe è difficile mantenere continuità nelle lotte e trovare il tempo organizzativo necessario. Lo fanno su tanti temi, in ultimo, ora, contro la cancellazione della legge che protegge e difende i ghiacciai e l’acqua. Nonostante tutto, la resistenza dal basso non si ferma: resta l’unica voce critica capace di contrastare il mileismo, anche se la sua forza è costretta ogni giorno a misurarsi con la fatica materiale di chi vive una crisi permanente.

La domanda fondamentale resta inevasa: quanto può reggere un paese dopo due anni di aggiustamento così violento? Quanto può sopportare una società impoverita, con pensionati che hanno perso un terzo del loro reddito reale, con servizi sociali smantellati, con una struttura produttiva indebolita, con un mercato interno in coma? L’Argentina vive oggi in uno stato sospeso, sostenuta da una narrazione che tacita il disagio reale e da una coalizione di poteri economici che beneficia della deregolamentazione selvaggia.

La vera questione non è se Milei abbia portato ordine nei conti pubblici, ma cosa sia stato distrutto per produrre quell’ordine. E soprattutto, se un paese che si impoverisce così rapidamente possa davvero considerarsi stabilizzato. Perché la stabilità che nasce dalla paura, dalla rinuncia ai diritti, dall’impoverimento sistematico e dalla cancellazione dello Stato non dura: semplicemente rimanda l’inevitabile. Quando la società tornerà a bussare, il conto — economico, politico e umano — sarà molto più alto. Pagine Esteri