Nella più grande demolizione di case palestinesi effettuata a Gerusalemme Est nel 2025, questa mattina le forze di polizia israeliane, giunte con le ruspe nel quartiere di Silwan, hanno abbattuto un intero palazzo nel rione di Wadi Qaddum composto da 13 appartamenti, la maggior parte dei quali era ancora occupata. La demolizione è stata eseguita senza preavviso, nonostante fosse previsto un incontro in giornata tra l’avvocato Jumaa Khalila, che rappresenta gli abitanti, e Moran Revivo, consulente legale del Comune di Gerusalemme, per discutere possibili misure per la legalizzazione dell’edificio.
Le autorità israeliane nella parte araba (Est) di Gerusalemme occupata nel 1967 concedono pochi permessi edilizi ai palestinesi, del tutto insufficienti a coprire il crescente fabbisogno di nuove case dovuto all’aumento demografico. I palestinesi descrivono questa politica una “deportazione silenziosa”, poiché costringe tante famiglie a dover lasciare Gerusalemme per cercare alloggi in Cisgiordania. Allo stesso tempo Israele espande continuamente gli insediamenti ebraici che ha costruito nella parte araba della città. “A Gerusalemme Est, i palestinesi sono spinti a costruire in modo ‘illegale’ da un regime di pianificazione che blocca sistematicamente i permessi, e le demolizioni vengono poi utilizzate come strumento per controllare il territorio, sfollare le comunità e negare ai palestinesi il diritto a un alloggio nella propria città”, spiega l’architetto dei diritti umani Sari Kronish.
Silwan è una delle aree di maggior penetrazione dei coloni israeliani. Nel corso degli anni, i residenti hanno intentato diverse azioni legali nel tentativo di impedire la demolizione; tutte queste azioni si sono rivelate inutili, con conseguente emissione di ordini di demolizione. Il fatto che quest’ultima demolizione sia stata effettuata poche ore prima di una riunione programmata per discutere la legalizzazione dell’edificio mostra chiaramente la mancanza di volontà di raggiungere un compromesso.
Gli abitanti dell’edificio abbattuto oggi hanno anche cercato di ottenere la modifica della destinazione d’uso del terreno e legalizzare il loro palazzo. L’ultimo tentativo era iniziato nel 2022 in coordinamento con l’ufficio di pianificazione comunale. Con una decisione evidentemente politica, il comune israeliano ha interrotto ogni procedimento e avviato la demolizione. “Se ci fosse stata buona fede da parte del comune, l’edificio avrebbe potuto essere legalizzato invece di distruggere le case di 13 famiglie”, afferma Aviv Tatarsky, ricercatore dell’associazione Ir Amin.
Intanto il governo israeliano ieri ha finalizzato la legalizzazione di 19 avamposti di coloni in Cisgiordania fino a oggi considerati non autorizzati dalla stessa legge israeliana. La decisione di fatto rappresenta l’abrogazione del Piano di disimpegno del 2005, che aveva portato all’evacuazione di tutti gli insediamenti ebraici a Gaza e di quattro piccole colonie nella Cisgiordania settentrionale. Sulla base di questo provvedimento, saranno ricostruite Ganim, Kadim, Homesh e Sa Nur, situate tra Nablus e Jenin, nel cuore del territorio palestinese.
L’annuncio è arrivato dal ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, con un incarico anche per le colonie, che ha parlato di un passo necessario per impedire la possibile nascita di uno stato palestinese. È di appena qualche giorno fa il progresso fatto al “Comitato israeliani per la pianificazione edilizia” del piano per la costruzione di 9.000 case per coloni nel luogo dove sorgeva l’aeroporto di Kalandiya, tra Gerusalemme e Ramallah. Un progetto che abbinato a quello di recente approvazione nella zona nota come E1, a est della città santa, taglia a metà la Cisgiordania.
L’esecutivo guidato da Benyamin Netanyahu in tre anni ha riconosciuto in totale 69 avamposti, punti di insediamento dai quali i coloni lanciano raid contro villaggi e piccole comunità agricole palestinesi al fine di costringerle ad evacuare.
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