Testo e foto di Giovanna Cavallo* Il silenzio della pietra, il grido della piazza. Il primo incontro. La prima volta che arrivai a Suwayda era estate. Ricordo la luce abbacinante del mezzogiorno, il calore che si raccoglieva sul selciato e il nero delle pietre basaltiche che sembravano trattenere le storie di secoli. C'è qualcosa di sacro ma anche di sobrio in questa città costruita sulla roccia: la discrezione delle facciate, i silenzi nei vicoli, gli ulivi che resistono come tutto qui, in silenzio ma con maestosa grandezza. Quella pietra nera che amplificava il colore desertico della città, emanava il vibrare dei battiti del cuore millenario sotto il peso della sua memoria, tanto straordinaria quanto dolorosa. Quando giunsi la prima volta fu a bordo di un autobus proveniente da Damasco, era il 2019, assieme a Yazan, che ora si trova a Dubai con sua moglie. La guerra sembrava lontana, almeno nelle sue forme più visibili nonostante il regime di Assad fosse ancora al potere. Suwayda pareva vivere in una bolla, né del tutto fedele, né ribelle, semplicemente trattenuta nel suo isolamento druso e nella sua prudenza secolare. Un equilibrio precario che tutti sentivano destinato a spezzarsi, prima o poi e che restava intrappolato come in una prigione. Il respiro della città era in quella che già allora era diventata la Piazza al-Karama in mezzo ai caffè modesti e ai piccoli uffici, dove si raccoglievano voci diverse: giovani attivisti, anziani religiosi, donne impegnate nel sociale. Si parlava a mezza voce, ma si dicevano cose grandi: cambiamento, giustizia, autonomia, rispetto. Parole che avevano preso forma nella storia recente che mi è stata...