di Valeria Cagnazzo*
Pagine Esteri, 15 settembre 2021 – Il carro del Gange – Parul Khakhar ha tenuto il suo account di Facebook chiuso per qualche tempo, dopo la tempesta mediatica che nel mese di maggio è riuscita ad attirare su di sé con una poesia, ma quando è riemersa nelle sfere social ha commentato l’accaduto con nuovi versi che non mostravano affatto i toni del pentimento: “Quelli che parlavano sono stati fucilati, per questo non parlerai”, hanno letto, dopo il suo lungo silenzio, i contatti social della poetessa. L’artista cinquantunenne del Gujarat, che si considera in primo luogo una donna di casa, una moglie e una madre, e che è tornata solo da alcuni anni al vezzo giovanile della scrittura dopo essersi realizzata pienamente, a suo dire, nella sfera famigliare, è molto apprezzata in India per le sue poesie romantiche. Non aveva mai espresso critiche contro il sistema, e anzi le era stata assegnata l’etichetta di poetessa “di destra”. Quando l’11 maggio, nel bel mezzo della catastrofe in cui riversava il suo Paese in preda alla pandemia e alla variante delta del Covid, ha pubblicato un post con la poesia “Shav-vahini Ganga” e i suoi fan hanno cominciato a farlo circolare in maniera virale, attorno a lei si è sollevata una nube di sconcerto e di attacchi feroci. Oltre 28.000 commenti sessisti e violenti sono stati lanciati in rete, alcuni di questi dagli account del partito al governo, il Bharatiya Janata Party (BJP). Nella poesia, Paul Khakhar descrive il Gange come un grande carro funebre in cui galleggiano i corpi degli Indiani uccisi dal Coronavirus. Il re, scrive, ha rivelato finalmente il suo volto, è zoppo, debole, è nudo. I versi sono stati presto interpretati come una non troppo velata accusa al Primo Ministro Narendra Modi e alla sua gestione della pandemia che in breve aveva portato l’India a contare 400.000 vittime ogni giorno. Per questo motivo, sulle reti social del primo partito del Paese e su migliaia di account falsi (dei cosidetti troll) la poetessa è stata ripetutamente derisa e umiliata, fino a essere costretta ad allontanarsi momentaneamente dalla scena pubblica. La tempesta mediatica pronta a scatenarsi su ogni canale social e televisivo come reazione a una critica nei confronti di Modi e del suo governo non è, però, il rischio peggiore che possa correre uno scrittore in India.
Lo sa bene il poeta e attivista Varavara Rao, 82 anni, che solo nel marzo scorso, a causa dei suoi problemi di salute e dopo aver contratto l’infezione da Covid19 dietro alle sbarre, ha ottenuto sei mesi di libertà dietro cauzione dall’Alta Corte di Bombay dopo due anni e mezzo di carcere. Rao era stato arrestato nel 2018, insieme a molti altri attivisti e intellettuali, per la sua partecipazione all’Elgar Parishad, un evento pubblico, con 280 organizzazioni non governative e 35.000 partecipanti, di dibattiti e spettacoli in occasione del bicentenario della battaglia di Bhima Koregaon, simbolicamente uno scontro tra l’imperatore e la casta degli intoccabili. Il giorno dopo l’Elgar Parishad, le proteste contro il sistema delle caste e contro il governo esplosero nella regione dell’evento, provocando un morto e alcuni feriti. Di questo il governo identificò come responsabili i poeti e gli avvocati che avevano preso la parola sul palco della manifestazione, tra di loro anche l’anziano Varavara Rao, leader tra l’altro del “Veerasam”, un’associazione di “scrittori rivoluzionari”. Gli arresti che seguirono l’Elgar Perishad erano legittimati dalla legge indiana per la Prevenzione delle Attività Illegali (Uapa, Unlawful Activities Prevention Act).
Una legge contro il terrorismo – Redatta nel 1967, l’Uapa è stata modificata in chiave antiterroristica tra il 2004 e il 2008. La veste di legge “anti-terrorismo” le conferisce un’eccezionalità che la pone al di sopra del rispetto dei diritti costituzionali, come denunciato da diverse organizzazioni. Essa colpisce di fatto non solo i responsabili di atti terroristici, ovvero azioni fanatiche mirate a diffondere morte e terrore nella popolazione civile. Secondo questa legge, è punibile qualsiasi organizzazione o individuo che sia “verosimilmente” minaccioso: qualunque funzionario dell’autorità designata può denunciare e far arrestare senza processo una persona, qualora sulla base di informazioni ottenute anche privatamente dovesse “avere motivo di crederla” autrice di contravvenzioni alla legge. Gli atti illeciti non sono meglio specificati, ogni forma di dissenso può essere punita con l’immediata detenzione. I social sono diventati per questo un terreno scivoloso, ed è chiaro che la bufera che ha travolto Parul Khakhar è poca cosa rispetto al rischio che uno scrittore corre in nome dell’Uapa. Anche Amnesty International ha segnalato l’utilizzo dell’Uapa per “prendere di mira giornalisti e difensori dei diritti umani (…) frenando la libertà d’espressione”. La legge è stata impugnata, ad esempio, contro il giornalista Masrat Zahra, per aver condiviso post “antinazionali” su Facebook, e contro Peerzada Ashiq, per aver caricato delle storie sulla differenza tra i kit di test per il Covid in circolazione. Entrambi, secondo la polizia locale dello stato di Jammu e Kashmir, rischiavano con le loro parole di disturbare l’ordine pubblico o di instillare paura, ed erano pertanto processabili come terroristi.
Libertà di scrivere – Secondo l’inchiesta annuale del PEN*, nel 2020 almeno 273 scrittori, accademici e intellettuali in 35 Paesi sono stati arrestati o detenuti arbitrariamente per qualcosa che avevano scritto. Tra di loro, i più numerosi sono gli scrittori di prosa (107), seguiti dai poeti (57), e poi dagli accademici, i cantautori, gli editori, i traduttori e gli autori di teatro: due sono morti in carcere e almeno tre poco dopo il rilascio per problemi di salute sviluppati o peggiorati durante la detenzione. Il podio dei Paesi in cui gli scrittori sono maggiormente a rischio spetta alla Cina, all’Arabia Saudita e alla Turchia. L’India è l’ottavo Paese nella classifica PEN. Proprio le proteste di Bhima Koreagon dopo l’Elgar Parishad e le loro ripercussioni hanno contribuito all’ascesa del Paese nella classifica: a Varavara Rao e ad altri scrittori che già si trovavano in carcere per quel caso, nel 2020 si sono aggiunti tre nuovi intellettuali, anch’essi detenuti senza processo sulla scia delle persecuzioni del governo contro gli autori di sinistra che avevano preso parte all’evento. E non sono solo gli arresti a imbavagliare gli scrittori indiani: nel 2020, almeno 83 blocchi sono stati imposti dalle autorità indiane agli account che manifestavano dissenso su internet, e dozzine di scrittori, denuncia il PEN, come nel caso di Parul Khakhar, sono stati vittime di minacce online, molestie, aggressioni fisiche o azioni legali. Un’altra agenzia, la Freedom House, nel 2020 ha trasferito l’India dal gruppo dei “Paesi liberi” a quello dei Paesi “parzialmente liberi” nel mondo. Il giro di vite del governo di Modi sulla libertà di espressione nei social media e sulle manifestazioni di dissenso degli intellettuali ha deteriorato lo stato di quella che era considerata una delle democrazie più vivaci e dinamiche.
La pandemia di Covid19, secondo il PEN, si è ripercossa negativamente sulla libertà di scrivere e sul bilancio dell’Agenzia per il 2020, che conta circa 40 scrittori detenuti in più rispetto al 2019. Almeno 52 nuove leggi sono state emanate nel mondo per contrastare la diffusione di false notizie sul Coronavirus. Molte di queste puniscono la pubblicazione di notizie false con il carcere. E se è vero che il complottismo dilagante rappresenta un pericolo per la salute pubblica internazionale e andrebbe arginato, è altrettanto rischioso che i governi strumentalizzino un’emergenza sanitaria per allungare le mani sulla stampa e sui social. Quali sono “le voci” sulla pandemia che vanno messe a tacere punendo chi le diffonde e qual è il metro per giudicare pericolosa un’informazione diffusa sul Coronavirus? In India, come in Cina e in altri Paesi, le leggi contro la disinformazione sono state di fatto utilizzate per giustificare l’arresto di intellettuali che avevano criticato i loro governi. In molti Paesi, la pandemia ha reso più facile imbavagliare il dissenso.
“Le campagne d’odio che si sono diffuse sui social networks contro i giornalisti che osavano parlare o scrivere di argomenti che infastidivano i seguaci hindu sono terrificanti”, ha denunciato anche Reporters Sans Frontières, che nel 2021 mette l’India al 142° posto dei 180 Paesi per libertà di espressione. “Nel 2020, il governo ha strumentalizzato la crisi del coronavirus per aumentare il suo controllo sulla copertura di notizie, perseguitando i giornalisti che davano informazioni discordanti dalle posizioni ufficiali”.
Un portale – Nella primavera del 2021, nel bel mezzo dell’emergenza Covid e delle diffuse ritorsioni nei confronti di scrittori e giornalisti, la casa editrice Penguin Books ha mandato in ristampa la versione aggiornata del libro “Guerrieri degli esami” del primo Ministro Narendra Modi, in copertina definito un “bestseller”. Le reazioni di due autori precedentemente pubblicati dallo stesso editore, Pankaj Mishra e Arundhati Roy, non si sono fatte attendere. Roy, l’autrice del “Dio delle piccole cose” e del “Ministero della suprema felicità”, vincitrice del Booker Prize e tradotta in oltre 40 lingue, non ha mancato di denunciare le “massicce pressioni” di Modi e i suoi seguaci nazionalisti hindu sugli editori e sugli eventi letterari nel Paese negli ultimi anni. “Avendo piegato e intimidito quasi ogni istituzione alla loro volontà, ora cercano la rispettabilità di essere autori “mainstream” invitati a eventi mainstream. Molti editori e organizzatori di festival letterari hanno ceduto”. Proprio in quel mese, la stessa autrice aveva inviato al Guardian uno dei suoi pezzi infuocati, che aveva fatto in poche ore il giro del mondo: “La pandemia è un portale”. Un’occasione, come Terzani aveva definito un altro evento di portata planetaria, l’11 settembre, per mettere l’umanità davanti ai suoi errori e decidere se ricominciare da capo o perseverare nei suoi sbagli. Un’opportunità anche nel campo dei diritti, compreso quello di espressione, per gli artisti e giornalisti, che probabilmente, alla luce dei dati del Pen o di Reporters Sans Frontières, è stata già tradita sul nascere. “Possiamo scegliere di attraversarlo (questo portale, ndr), trascinandoci dietro le carcasse del nostro pregiudizio e del nostro odio, della nostra avarizia, delle nostre banche dati e delle nostre idee morte, dei nostri fiumi morti e dei cieli fumosi. Oppure possiamo camminare leggeri, con poco bagaglio, pronti a immaginare un altro mondo. E pronti a lottare per questo”, scriveva Arundhati Roy, e sembrava convincente. E forse in questo consiste la forza della parola e della scrittura, che, malgrado tutto, venga ancora spontaneo crederci.
* Pen International: acronimo di “Poets, Essayists, Novelists”, è un’organizzazione non governativa di scrittori fondata nel 1921 a Londra, con lo scopo di promuovere lo scambio intellettuale tra gli scrittori di tutto il mondo e difenderne la libertà d’espressione. Ha ancora sede a Londra ed è composto di 145 succursali autonome diffuse in 104 Paesi.
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*Valeria Cagnazzo (Galatina, 1993) è medico in formazione specialistica in Pediatria a Bologna. Come medico volontario è stata in Grecia, Libano ed Etiopia. Ha scritto di Palestina su agenzie online, tra cui Nena News Agency. Sue poesie sono comparse nella plaquette “Quando un letto si svuota in questa stanza” per il progetto “Le parole necessarie”, nella rivista “Poesia” (Crocetti editore) e su alcune riviste online. Ha collaborato con il Centro di Poesia Contemporanea di Bologna. Per la sezione inediti, nel 2018 ha vinto il premio di poesia “Elena Violani Landi” dell’Università di Bologna e il premio “Le stanze del Tempo” della Fondazione Claudi, mediante il quale nel 2019 ha pubblicato la sua prima silloge poetica, “Inondazioni” (Capire Editore). Nel 2020, il libro è stato selezionato nella triade finalista del premio “Pordenone legge – I poeti di vent’anni”.