di Marco Cinque
Pagine Esteri, 1 ottobre 2021 – “Uccidi l’indiano, salva l’uomo” era il razzistissimo motto delle famigerate 119 Residential School canadesi e delle 367 Boarding School statunitensi, il cui intento era già ben chiaro quando, nel 1875, il vescovo Vital Grandin affermava: “Instilliamo in loro un pronunciato disgusto per la vita nativa in modo che vengano umiliati quando viene ricordata la loro origine. Quando si diplomano nelle nostre istituzioni, i bambini hanno perso tutto dei Nativi, tranne il loro sangue”.
Le scuse pubbliche fatte nel 2007 dall’ex premier canadese Michael Harp, a cui si sono poi aggiunte quelle più recenti dell’attuale premier Justin Trudeau, in riferimento ai ritrovamenti dei corpi di più di seimila bambini indigeni occultati in tombe anonime e fosse comuni, hanno messo in evidenza le dirette responsabilità nel genocidio che si è protratto per oltre un secolo, grazie a leggi razziali (alcune ancora in vigore) emanate dagli stessi governi del Canada. Scuse ufficiali invece non sono mai arrivate dalla Santa Sede, che ha gestito direttamente la maggior parte degli istituti religiosi canadesi, trasformati in veri e propri lager finalizzati all’assimilazione forzata delle giovani generazioni native, dove decine di migliaia di bambini, tra i 150mila che vi sono stati internati con la forza, risultano morti o dissolti nel nulla.
Parallelamente al fenomeno criminale che ha prodotto abusi, violenze, stupri, sterilizzazioni e omicidi di bambini nelle Residential School, ce n’è anche un altro non meno tragico riferito alle ragazzine e alle donne native. In una trasmissione della tv nazionale canadese Cbc si apprese di un’indagine condotta dal movimento Walk 4 Justice, che aveva rivelato la scomparsa, gli stupri e gli omicidi di almeno 4232 donne indigene, come confermato anche da un’inchiesta della Nwac (Native Women’s Association of Canada).
Nel febbraio del 2016 salì alla ribalta la tragica storia di Rinelle Harper, una studentessa sedicenne ripescata nuda e in fin di vita tra i fiumi Assiniboine e Red River. L’adolescente indigena era stata ripetutamente violentata da due uomini e gettata nel fiume. Riuscita a tornare a riva, la giovane fu di nuovo aggredita brutalmente, finché restò esanime. Credendola morta, i due uomini la lasciarono alla corrente di un fiume che, per fortuna, non è riuscito a diventare la sua tomba. Poi, nel dicembre del 2017, a seguito dell’incriminazione di Raymond Cormier per l’omicidio della quindicenne nativa Tina Fontaine, ritrovata chiusa in un sacco nel fiume Red River, il primo ministro canadese Justin Trudeau, ormai specializzatosi in scuse pubbliche, promise solennemente che avrebbe fatto luce su questa mattanza, affermando che “Il livello della violenza contro le adolescenti indigene è una tragedia nazionale. Le vittime meritano giustizia, le loro famiglie un’opportunità per rimarginare le ferite ed essere ascoltate”.
Da allora le ragazzine e le donne indigene continuano ad essere stuprate, uccise e a sparire nel nulla, facendo diventare le solenni promesse governative l’ennesimo mea culpa retorico e inutile. Molte famiglie delle vittime chiedono oggi la riapertura di casi insabbiati o chiusi frettolosamente e ciascuna delle quattromila famiglie indigene che hanno perduto una madre, una sorella, una figlia, è devastata non solo dal lutto e dall’atrocità dei crimini commessi, ma anche dall’omertà che troppo a lungo ha coperto e favorito una strage che poteva essere evitata o almeno contenuta.
Il fenomeno delle donne indigene abusate o scomparse però non è solo canadese, anche negli Stati uniti si verificano gli stessi crimini. Un’inchiesta del Center for Disease Control ha rivelato infatti che quasi l’ottanta per cento delle donne indigene ha subito violenze e almeno il cinquanta per cento di loro è rimasta vittima di abusi sessuali. Secondo il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, le donne indigene in questo paese affrontano tassi di omicidi che sono più di 10 volte la media nazionale. L’omicidio è la terza causa di morte per le donne e le ragazze indigene di età compresa tra 10 e 24 anni e la quinta per le donne di età compresa tra 25 e 34 anni. A partire dal 2016, il National Crime Information Center ha segnalato 5.712 casi di donne native uccise e scomparse. Solo nel maggio 2021, nel South Dakota, sono state denunciate le sparizioni di 13 tra ragazzine e adolescenti indigene, di cui non si è saputo più nulla.
Può sembrare strano, ma la crescita vertiginosa di queste violenze è collegata anche a quello che i popoli nativi considerano “lo stupro della Madre Terra” a opera delle compagnie petrolifere. Proprio la crescita dei grandi progetti legati a questa industria ha causato un enorme afflusso di operai maschi non nativi all’interno o nei pressi dei territori che ospitano le comunità indigene, trasformate quindi in veri e propri territori di caccia dove i predatori cercano le loro vittime.
Le denunce delle violenze, purtroppo, non hanno trovato adeguati riscontri giudiziari e le vittime vengono tuttora regolarmente ignorate e abbandonate al loro destino. Secondo l’U.S. Government Accountability Office, almeno nel cinquanta per cento dei casi di violenze sessuali le donne native coinvolte hanno ricevuto un rifiuto dagli studi legali a cui si erano rivolte. In tal senso anche Terry Henry, ex membro del direttivo del Congresso Nazionale degli Indiani d’America sulla violenza contro le donne native, aveva confermato: “La violenza che stiamo vivendo è direttamente connessa con i molestatori che camminano liberi senza timore della legge, senza paura della responsabilità civile o di procedimenti penali”. Il problema è che, da una parte, i tribunali tribali non hanno la possibilità giuridica di perseguire gli autori non nativi dei reati, mentre dall’altra le autorità federali si rifiutano di perseguire crimini avvenuti all’interno delle riserve. In questo modo il buco nero giurisdizionale ha creato una proliferazione di aggressioni che crescono anche grazie alla certezza dell’impunità.
Il genocidio delle comunità native nel cosiddetto Nuovo Mondo ormai continua ininterrotto da più di 500 anni, anche se oggi ha assunto nuovi aspetti, incluso quello più subdolo, definito “genocidio culturale”, che non è fatto solo di violenze, stupri, discriminazioni, omicidi, assimilazioni forzate e ripudio di memorie e radici, ma anche di pratiche di appropriazione arbitraria di retaggi e nomi, che contribuiscono alla progressiva invisibilità e alla cancellazione di quei popoli. Basta fare un esperimento semplicissimo, come andare sulla stringa di un qualunque motore di ricerca per immagini e digitare le parole “cherokee” o “apache” o “alce nero”, i risultati che ne emergono sono sorprendenti e tragici.