di Valeria Cagnazzo* –
Pagine Esteri, 24 novembre 2021 – Aveva solo diciassette anni Ali Ahmad Said Isbir quando iniziò a spedire le sue poesie alle case editrici e ai giornali siriani. I suoi scritti venivano tutti cestinati, forse senza essere letti, probabilmente anche per via di quella firma dalla forte connotazione religiosa che respingeva gli editori. “Così decisi di firmarmi Adonis: vennero tutti pubblicati”. Correva l’anno 1947 e il giovanissimo Ali Ahmad, primo di sei figli in una famiglia di contadini di origine alawita, si trasformava nel personaggio di Adonis, il poeta arabo oggi più famoso al mondo pluricandidato al Nobel. Il nuovo nome era quello di un dio greco, in aperto segno di rottura con la tradizione araba e di appartenenza a una cultura più vasta che abbracciava quella classica e occidentale, anzi la considerava imprescindibile: una cifra stilistica e di pensiero che il poeta avrebbe conservato anche nella sua maturità.
Quando nel 1950 vide la luce la sua prima raccolta di poesie, “Dalila”, la neonata Repubblica indipendente siriana era attraversata da un’ondata di burrascosi colpi di Stato. Il giovane Adonis non era estraneo alle vicende politiche del suo Paese, che le truppe francesi avevano lasciato da pochi anni: aveva in tasca la tessera del Partito Nazional Socialista Siriano e un curioso aneddoto legava la sua poesia e la sua formazione alla nascita della Repubblica. Appena quattordicenne, e quindi ancora al secolo Ali Ahmad, provenendo da una famiglia indigente non poteva frequentare la scuola, e tutto quello che sapeva l’aveva imparato grazie a suo padre, che gli aveva insegnato a leggere e scrivere su un solo libro, il Corano. Un giorno venne in visita a Jableh, una cittadina vicina al suo paese, il Presidente Shukri al-Quwwatli, eletto nel ’43 e considerato il primo Presidente della Repubblica siriana indipendente grazie alle trattative che tenne con la Francia per porre fine definitivamente al suo mandato. Contro il parere di suo padre e degli altri uomini della famiglia, durante il corteo del Presidente, Ali Ahmed gli si fece avanti e recitò una poesia che aveva composto in onore della Repubblica: ad Al-Quwwatli, che impressionato dal suo talento gli chiese cosa potesse offrirgli in cambio, il giovane Adonis rispose che desiderava studiare. Fu così che ottenne una borsa di studio per frequentare un liceo francese e che poté poi iscriversi alla facoltà di Legge e Filosofia.
L’appartenenza al Partito Nazional Socialista Siriano, un partito laico, all’epoca rivale del partito Ba’ath, che rivendicava la creazione di una Grande Siria che comprendesse Siria e Libano e gli altri territori della Mezzaluna Fertile frammentati in diverse entità statali dai colonizzatori, valse l’arresto del giovane poeta nell’inverno del 1955. Molto tempo dopo, Adonis avrebbe dichiarato al Guardian: “Avevo tredici o quattordici anni quando mi ci sono unito (al partito, ndr) – un bambino. Più tardi, ho detto che non potevo essere al tempo stesso poeta e impegnato politicamente. L’ideologia è nemica dell’arte”. Dopo sei mesi di carcere, “un vero inferno”, Adonis lasciò la sua Siria per trasferirsi in Libano. Lì, il poeta che si era già spogliato del suo nome provò a gettare via per sempre anche i panni della politica e a rinascere soltanto come un poeta d’avanguardia. Nell’esilio, come amò dichiarare in seguito, trovò una seconda vita. Nell’esilio nacque la sua poesia. “Ho letto su una foglia che morirò esiliato.
Gli anni in Libano furono caratterizzati da un vivace fermento culturale e dall’incontro con altri poeti e narratori di prosa avanguardisti. In un’epoca in cui l’intera regione stravolgeva il suo assetto politico, in ogni Paese arabo che si affacciava alla Repubblica e all’indipendenza c’era un gruppo di scrittori che sognava una rivoluzione letteraria. Adonis e i suoi colleghi in Libano fondarono “Majallat Shir” (“Rivista di Poesia”). Come spiegò nel 2002 lo stesso Adonis al New York Times, “Quello che cercavamo di ottenere (con la rivista, ndr) era una riscoperta del sé, contro la legge tribale, contro la ummah, contro tutte queste forme ideologiche di cultura. E per quanto fossimo spesso boicottati e accusati di americanismo e di altri peccati, chiunque oggi sa che tutto quello che è vero e reale nella poesia araba viene proprio da “Shir””. Quello che gli avanguardisti sperimentavano su quelle pagine, dopo letture di poeti americani come Walt Withman e di altri contemporanei, era soprattutto il verso libero, difficile da innestare in una tradizione poetica orgogliosamente affezionata a una metrica rigida e alla rima baciata. Il verso libero, però, sembrava in quegli anni ormai una necessità, impellente come il desiderio di nuove forme di governo diverse dalla monarchia e libere dai protettorati stranieri. Dall’altra parte del confine, d’altronde, in Iraq, Nazik al-Malaika aveva già alcuni anni prima introdotto il verso libero nella poesia irachena: “Dall’Iraq, anzi dal cuore di Baghdad, questo movimento (della poesia libera, ndr) ha strisciato estendendosi fino a sommergere l’intero mondo arabo”, avrebbe detto la poetessa. Come Adonis, anche Al Malaika avrebbe salutato la sua neonata Repubblica con una poesia, nel 1958.
Dopo “Majallat Shir”, vennero le riviste “Mawafiq” (“Posizioni”) e poi “El-Akhar” (“L’altro”). Anch’esse furono osteggiate e addirittura censurate in alcuni Paesi, ma sulle loro pagine venivano pubblicate le firme rivoluzionarie di Elias Khoury, Hisham Sharabi e di Mahmoud Darwish.
Fu nel ’70 che Adonis diede alle stampe quello che si può considerare il suo battesimo letterario. Da allora, la sua carriera poetica avrebbe conosciuto una sempre più luminosa ascesa e il suo nome, tratto dalla mitologia greca, avrebbe ottenuto un riconoscimento e un’affermazione definitivi e “irreversibili”. “Ecco il mio nome”: il titolo non era assolutamente casuale. Il poemetto, scritto nel ’69, venne inserito nella raccolta “Un tempo tra le ceneri e le rose”, e successivamente pubblicato insieme a un altro poema, “Una tomba per New York”. Nell’opera, il suo interlocutore ha il suo nome originario, Ali. Come davanti a uno specchio, è ad Ali che il poeta si presenta, è davanti a lui che pronuncia il suo nuovo nome. In quello specchio si riflette, però, anche altro. Le immagini della terra lasciata dietro di sé, ad esempio, e l’angoscia dell’esilio che ancora non si è spenta. “La mia patria mi insegue, fiume di sangue”, scrive, o ancora: “ “Vedrò il volto del corvo / nei lineamenti del mio Paese, e chiamerò/ sudario questo libro/ chiamerò questa città carogna / chiamerò l’albero di Damasco uccelli tristi”. E l’impellente interrogativo del poeta in fuga: “Ricomincerò, ma dove? Da dove? Come spiegarmi, in che lingua? Quella di cui mi nutro mi ha tradito”. La lingua dà nutrimento e diventa materia con cui dare forma alle cose: da questo viene l’enfasi sul nome, non solo sul proprio, Adonis, mito greco, ma sul nome delle cose, sul potere dell’uomo di nominare il mondo, unico modo per renderlo reale, per testimoniarlo e per trasformarlo.
Non sempre è facile assaporare nella versione italiana i giochi linguistici di Adonis e la delicatezza della sua parola, ma questo riguarda un’altra questione che ha che a vedere con la traduzione in poesia e con l’importanza che anche i traduttori siano poeti. La rivoluzione poetica di Adonis, però, in “Questo è il mio nome” è già abbastanza consapevolmente padroneggiata: le prose poetiche si incastrano ai versi liberi, e i versi prendono la forma di gradini, una struttura già cara al poeta turco Nazim Hikmet. Nello specchio del libro, anche un altro spettro si affaccia con la sua ombra riflessa: Gerusalemme, Giaffa, la Palestina vengono contemplate nella sua morsa. Solo due anni prima della stesura del poemetto, Israele aveva vinto la Guerra dei Sei Giorni. La vittoria e l’espansione del giovane Stato nei territori del Sinai, di Gaza e di Gerusalemme Est rappresentò una tragedia per la popolazione palestinese costretta a una seconda diaspora (“al-Naksa”), ma anche uno smacco per tutto il mondo arabo. La produzione della letteratura araba abbracciava così, definitivamente, il popolo palestinese come la vittima eletta, e anche le opere di Adonis, per quanto l’ideologia fosse “nemica dell’arte”, furono inevitabilmente investite da questo dramma storico.
Un altro dramma, in breve tempo, avrebbe colpito anche il Paese arabo in cui Adonis si era rifugiato e nel quale aveva iniziato la sua carriera di Professore di Letteratura araba. Dal 1975 il Libano fu travolto da una guerra civile che culminò nella sanguinosa invasione da parte di Israele e nelle stragi di Sabra e Chatila. “La guerra dei sei giorni fu terribile, ma non mi resi conto della sua tragicità finché non arrivò il 1982”, dichiarò Adonis, che aprì il suo “Libro dell’assedio” con queste parole: “Le città si dissolvono e la terra è un carro carico di polvere / solo la poesia può avvicinarsi a questo spazio”. Ma il poeta era già lontano: abbandonò il Libano in quello stesso anno per migrare nella sua nuova terra, la Francia, e lasciarsi per sempre alle spalle quel Medio Oriente così “carico di polvere”. (fine parte prima, domani la seconda parte). Pagine Esteri
*Valeria Cagnazzo (Galatina, 1993) è medico in formazione specialistica in Pediatria a Bologna. Come medico volontario è stata in Grecia, Libano ed Etiopia. Ha scritto di Palestina su agenzie online, tra cui Nena News Agency. Sue poesie sono comparse nella plaquette “Quando un letto si svuota in questa stanza” per il progetto “Le parole necessarie”, nella rivista “Poesia” (Crocetti editore) e su alcune riviste online. Ha collaborato con il Centro di Poesia Contemporanea di Bologna. Per la sezione inediti, nel 2018 ha vinto il premio di poesia “Elena Violani Landi” dell’Università di Bologna e il premio “Le stanze del Tempo” della Fondazione Claudi, mediante il quale nel 2019 ha pubblicato la sua prima silloge poetica, “Inondazioni” (Capire Editore). Nel 2020, il libro è stato selezionato nella triade finalista del premio “Pordenone legge – I poeti di vent’anni”.