di Caterina Maggi –
Pagine Esteri, 11 gennaio 2022 – In un biennio in cui i mercati hanno sofferto le restrizioni della pandemia e i governi giustificano riforme mancate con il peso del debito da SarSCoV2, un settore non ha conosciuto crisi né ribassi. È il business delle guerre, che fa lievitare le spese pubbliche degli Stati coinvolti e foraggia un’industria miliardaria dai tratti ambigui e dal costo sociale insostenibile. Che poi finanzia a sua volta i partiti politici nelle istituzioni, creando un circolo vizioso fondato sulla strage.
Tra i primi in classifica, continuano a difendere il primato di “sceriffi” della Terra gli Stati Uniti d’America: secondo lo studio del Watson Institute dall’inizio dell’ambigua crociata di G.W. Bush (la “Guerra globale al Terrore” iniziata all’indomani dell’11 settembre) le vittime civili dei conflitti su iniziativa americana sono state almeno 387 mila, localizzate soprattutto in Iraq, Afghanistan, Siria, Yemen. A questo numero vanno sommate le vittime di eventi legati ai conflitti, come coloro che muoiono lungo le rotte migratorie verso l’Africa e l’Europa, ma anche le vittime delle carestie dovute all’incancrenirsi del conflitto. In Yemen, ad esempio, 85 mila persone non sono morte per le bombe, ma per la fame causata dai combattimenti e dalla conseguente carestia. Almeno 10 mila di loro, erano bambini.
Inoltre, sono 38 milioni i cittadini di paesi entrati in conflitto con gli Usa che sono stati costretti a scappare, di cui solo 27 milioni sono tornati a casa dopo la fine o l’attenuazione dello stato di crisi. Una cifra che supera tutte le guerre del XX secolo, seconda solo alle stragi della Seconda guerra mondiale. La stessa cifra dei displaced va presa “con le pinze”: la stima, basata sui dati ufficiali forniti dalle organizzazioni internazionali come Unhcr e dalle ngo, potrebbe essere più contenuta del numero reale, se si considerano anche tutti gli individui che sfuggono alle statistiche ufficiali. In questo caso, il numero potrebbe salire fino a quota 40-60 milioni. Soltanto per le guerre “made by Usa”. E soltanto, va sottolineato, per quei conflitti in cui gli Stati Uniti sono un “attore coprotagonista” cioè in cui la loro presenza è ufficiale e palese. Se si considerassero anche i teatri di guerra in cui gli Stati Uniti non sono presenti come contingente militare, ma forniscono comunque supporto bellico (armi, mercenari, altre risorse) a uno o più contendenti, come ad esempio in alcune “zone calde” dell’America Latina, la cifra sarebbe destinata a salire.
A beneficio dei più cinici, sarebbe da sottolineare come non si tratti solo di una catastrofe umanitaria: è anche un discreto colpo al portafoglio dei contribuenti. Pur con un ribasso del 21 % nel 2021 (l’anno del “disimpegno” dell’amministrazione Biden), il Dipartimento di Stato statunitense ha calcolato che l’export di apparati bellici Usa verso paesi terzi ha fatto comunque guadagnare all’America 138 miliardi di dollari. Per capirci, nel 2021 il budget per la Difesa degli Stati Uniti è stato di 750 miliardi di dollari; quasi il doppio (almeno considerando le cifre stimabili) di quanto ha speso la Cina nello stesso anno, 258 miliardi.
Non va meglio per il Vecchio Mondo, che fa i conti (salati) con un’attitudine colonialista mai totalmente sopita. A fotografare la situazione è l’ultimo report annuale disponibile dell’Istituto di studi per la Pace di Stoccolma (Sipri), uscito il 6 dicembre 2021 in riferimento all’anno 2020. Mentre la vendita di armi da parte di Mosca segna un ribasso per tre anni di seguito – “solo” 26 i miliardi guadagnati dalle nove compagnie prese in analisi – per quanto riguarda i vari paesi dell’Ue il risultato è meno omogeneo. La spesa complessiva resta comunque ingente,168 miliardi; per l’accoglienza dei rifugiati, nel bilancio 2021/2027, ne sono stati stanziati 27. Ma i rifugiati non portano guadagno, le mine sì: dalla produzione di armi le compagnie europee hanno guadagnato 109 miliardi nel 2020.
Prendiamo ad esempio la Francia, una nazione impegnata in diversi teatri di guerra, soprattutto in Africa. La spesa militare francese nel 2021 è stata di 41 miliardi, mentre i guadagni delle sei maggiori compagnie di produzione bellica d’Oltralpe ammontano a 26 miliardi. Ma non si parla solo di armi: la Francia fornisce in diversi teatri di guerra preparazione alle truppe locali e appoggio logistico, nonché uomini, ai propri alleati. Come nel caso del Mali, un fronte aperto nel 2013 da Francois Hollande e che Macron tenta ora di chiudere con una riduzione da 3 mila a 2 mila unità impiegate nella “lotta al terrorismo” nel Sahel. Una scelta presentata come un tentativo di ridurre le spese, più probabilmente dettata dalla fastidiosa presenza di altri attori nell’area (come i mercenari del Gruppo Wagner che fanno “concorrenza” ai francesi nell’addestramento delle milizie locali).
Non sono esenti da questo Monopoly al tritolo anche gli italiani “brava gente”. La nostra Costituzione, in teoria, stabilisce all’articolo 11 il ripudio della guerra “come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”; peccato che poi l’interpretazione finisca per essere “Non possiamo fare la guerra, ma possiamo vendere le armi a chi la fa”. È così, ad esempio, che proiettili prodotti in Italia dalla ditta livornese Cheditte, passando di mano in mano e di Stato in Stato, finiscono per essere sparati dall’esercito del Myanmar contro i ribelli al confine con la Thailandia, ma anche contro i civili che protestano pacificamente per le strade del paese. Le due società italiane nella Top 100 stilata dal Sipri, Leonardo e Fincantieri, hanno prodotto armamenti per 13,8 miliardi. Tanto, la linea difensiva è semplice (e sempre la stessa): se loro vendono a una ditta turca (Yaf) polvere da sparo e cartucce per la caccia, e queste vengono poi esportate come armi in un paese in guerra, che colpa ne può avere l’azienda d’origine? Così, nonostante un ipotetico embargo che dovrebbe essere effettivo dagli anni ’90, le armi italiane arrivano nel Sud Est Asiatico. Ma non solo, come si può leggere nella corposa Relazione sulle Operazioni Autorizzate e Svolte per il controllo dell’Esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento. Oltre che con la Turchia, l’Italia fa ottimi affari anche con Arabia Saudita (144 milioni di euro), Turkmenistan (149) e Qatar (212 milioni). Il primo paese con cui facciamo affari? L’Egitto, cui abbiamo venduto nel 2020 armi per 991 milioni. Alla faccia delle passerelle politiche degli ultimi tempi.
Le guerre le dichiarano i potenti: i governi coloniali, i loro alleati, generali in cerca di gloria e altri generi di mitomani. Ma quello che non si vede, è il sangue che cola sotto le loro tribune, di chi paga veramente il prezzo di un conflitto: civili dilaniati dalle bombe, o assiderati su qualche vetta tra Turchia e Siria, o massacrati da gruppi armati foraggiati da governi democraticamente eletti in Occidente. A guardare bene, a indagare chi è il primo responsabile di questo sangue, probabilmente ne troveremmo sulle nostre mani. Pagine Esteri
*Laureata in Lettere all’Università di Genova e diplomanda alla Scuola di Giornalismo di Bologna, giornalista praticante presso l’Istituto Affari Internazionali, si appassionata fin da giovanissima alla questione palestinese e al Medio oriente. Scrive per il sito online Affarinternazionali.