di Pasquale Porciello –
Pagine Esteri, 21 marzo 2022 – Beirut. Il conflitto in Ucraina ha avuto due effetti immediati sul medioriente. Il primo puramente economico, in quanto Ucraina e Russia sono tra i maggiori esportatori di grano e olio di semi nella regione, oltre a ciò che riguarda il caro carburante globale, il secondo mediatico. La crisi che sta sprofondando il Libano in un abisso da più di due anni è stata derubricata a notizia di second’ordine nel panorama dell’informazione, mentre quello che rientra perfettamente nel concetto sviluppato da Corm di buffer state, stato cuscinetto, è senza dubbio uno dei paesi più importanti dal punto di vista geopolitico del medioriente e mondiale.
Lontano dai media, il Libano attraversa oggi una fase delicatissima. Il 2019 verrà ricordato come l’anno dello scoppio della bolla finanziaria in cui il paese ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità per almeno i dieci anni precedenti. Riad Salameh, governatore della Banca Centrale e uomo di Rafiq Hariri, i cui conti sono stati da qualche settimana congelati dalla giudice Ghada Aoun e a cui è stata interdetta l’uscita dal paese, è accusato di aver creato uno schema Ponzi che, saltato, ha prosciugato i conti bancari dei risparmiatori libanesi dopo averli congelati. Raja Salameh, che assieme al fratello Riad è sotto inchiesta in Francia e Svizzera per riciclaggio attraverso società offshore, è stato arrestato giovedì. La giudice, accusata di essere politicizzata e diretta da Aoun, ha congelato il 14 e il 17 marzo i beni di sei banche e dei loro membri principali e ha interdetto ai direttori l’uscita dal paese. Il 16 marzo la giudice Mariana Anani ha congelato i beni di Fransabank e il 18 il giudice Bassem Nasr quelli delle sedi tripoline di Blom Bank.
Oggi e domani il settore bancario ha quindi indetto uno sciopero contro le decisioni della magistratura e per manifestare contro l’assenza di un recovery plan statale.
Per mancanza di carburante sono state annuciate chiusure geopardizzate dei distributori. Da qualche settimana anche i tagli all’elettricità, prodotta quasi interamente a diesel, sono aumentati. La Commissione Finanza e Budget del governo si dovrebbe oggi riunire per vagliare la possibilità di nuovi bandi per l’importazione di gas.
La lira libanese, agganciata a un tasso fisso di 1507.05 lire al dollaro dai tempi di Rafiq Hariri, è dall’ottobre 2019 in caduta libera. Oggi è più o meno stabile al mercato nero a un tasso di 22/23mila, ma con tendenza a salire vista la situazione, dopo aver toccato quota 34mila a dicembre. Il peg, l’aggancio, della lira al dollaro ha un effetto sul mercato interno chiamato dollarizzazione dell’economia: in termini pratici, a prescindere dalla moneta locale, il mercato è calibrato sul dollaro. Se si tiene conto che il Libano produce solo il 20% del fabbisogno interno dei beni di prima e seconda necessità, mentre l’impianto neo-liberista implementato dalle politiche di Hariri padre ha puntato tutto sul terziario, si può facilmente intuire l’impatto che l’oscillazione lira/dollaro ha sull’economia.
I prezzi sono alle stelle e in assenza di qualunque tipo di controllo la speculazione è senza freni. Il 74% della popolazione vive in povertà e se si prendono in considerazione i dati di accesso a sanità, educazione e servizi pubblici la percentuale sale all’82%, cifra raddoppiata rispetto al 42% del 2019. Questi i numeri forniti dal report annuale dell’agenzia Onu ESCWA sulla «Povertà Multidimensionale» in Libano del settembre 2021. Dopo sei mesi la situazione non è certamente migliorata.
Ad essere più colpita dalla crisi è la classe media, ovvero quella che deve fare i conti con gli stipendi in lire: insegnanti, funzionari pubblici, esercito, ma anche buona parte del privato, ovvero tutti coloro i quali sono legati al circuito economico interno. Perché ne esistono anche di esterni, come quello del settore delle ong – che continuano a falsare l’economia soprattutto della capitale specie riguardo al problema della gentrificazione dei quartieri più centrali, una volta popolari, dove impiegati stranieri o libanesi pagano in dollari e dove si preferisce, piuttosto che affittare a chi paga in lire, lasciare sfitte le case – o come quelli legati al Golfo o all’Africa, dove tantissimi libanesi lavorano e da dove mandano o tornano con fresh dollars, oltre che ovviamente quelli di una minima parte di popolazione che detiene la quasi totalità della ricchezza del paese.
Per la questione grano, oltre al danno, la beffa. L’esplosione al porto di Beirut che ha devastato mezza città e causato più di 200 vittime, 7mila feriti e 300mila sfollati, è avvenuta proprio in prossimità dei più grandi silos di stoccaggio di grano del paese, che, sventrati, sono divenuti il simbolo di quella catastrofe.
Tanto che il ministro dell’economia libanese Amin Salam aveva dichiarato all’inizio della crisi ucraina che il Libano aveva riserve sufficienti per un mese e che il governo era in contatto con altri paesi come gli Stati Uniti, l’India o l’Argentina per l’approvvigionamento. George Barberi, direttore generale del ministero, si era spinto a dire che il governo avrebbe potuto fermare la produzione di croissant e dolci e produrre solo pane arabo. Se oggi da un lato non sembra che ci siano carenze importanti, dall’altro però i prezzi sono ulteriormente aumentati.
Da oltre due anni nessun provvedimento strutturale è stato adottato. Dopo lo stallo politico causato dalla diatriba Michel Aoun (presidente)/ Saad Hariri (premier), durata quasi un anno, nemmeno Mikati ha in realtà fatto nessun passo verso una rimessa in sesto dei conti del paese, nonostante la disponibilità più volte dimostrata sia dalla comunità internazionale (con in testa Macron, che tenta attraverso la crisi libanese di rinsaldare l’influenza francese sull’ex protettorato e sulla regione) che dal Fondo Monetario Internazionale.
Il paese in ogni caso rimane a galla per la sua struttura di potere fortemente corrotta, per quel giro di favoritismi detto wasta, conoscenza, aggancio, quel sistema visceralmente legato al confessionalismo, dove il parlamento rappresenta le comunità religiose, che vogliono però dire territorio e quindi legami più o meno diretti, ma sempre clientelari, con classe politica. Legami politici, sociali e soprattutto economici, che creano un complesso multicentrico di poteri.
Una data che in ogni caso segnerà un giro di boa, ma certamente non un cambiamento epocale, è il 15 maggio, giorno delle elezioni. Le rinunce a candidarsi di Saad Hariri, di Mikati, Salam e Siniora, figure storiche dell’universo sunnita, lasciano inevitabilmente un vuoto di potere. Mikati e Siniora -che ha incontrato settimana scorsa una delegazione saudita a Parigi- non escono comunque di scena e lavorano alle liste, mentre è ancora poco chiaro cosa sarà del Movimento Futuro di Hariri.
Riyahd starebbe lavorando per rafforzare l’asse 14 Marzo anti-Hezb’allah, riacquistare rilievo in Libano, anche con l’appoggio dell’Eliseo, e ricucire in questo senso i rapporti diplomatici con Beirut interrotti il 29 ottobre scorso quando richiamò in patria l’ambasciatore Bukhari in seguito al caso Kordahi. Nell’orbita saudita gravano i sunniti, ma anche Joumblatt (PPS) e soprattutto il dottore Geagea, cristiano, unico leader della guerra civile (1975/90) ad aver pagato con il carcere e capo Forze Libanesi che raccoglie sempre più consensi tra le fila dei delusi dal partito del presidente Aoun.
Dal 14 ottobre scorso – quando uomini legati alle Forze Libanesi che avrebbero però agito in maniera indipendente hanno sparato su un corteo di Hezb’allah-Amal a Tayyoune, sull’antica linea di confine Beirut est-ovest che protestava contro la presunta politicizzazione del processo sull’esplosione al porto – una sua gigantografia è apparsa a Sassine, piazza simbolo della cristiana Beirut est.
Dal lato opposto non è certo un buon momento per l’asse Aoun-Hezb’allah. La thaura aveva già fatto emergere un sentimento di malessere per i due partiti in particolare da parte anche delle loro basi, ma mentre quella di Hezb’allah è sicuramente più salda, non tutti gli aounisti apprezzano oggi, alla luce della crisi, i risultati prodotti da quest’alleanza.
Un terzo effetto della crisi ucraina – e per questo bisognarà attenderne gli sviluppi – è certamente quello che riguarda i rapporti della Russia con l’asse Iran/Bashar al-Assad/Hezb’allah. Venerdì al-Assad ha visitato per la prima volta dal 2011 Sheikh Mohammed bin Rashid Al Maktoum a Dubai, un segnale di svolta nel conflitto in cui anche Russia, Stati Uniti e Israele sono coinvolti, oltre che ovviamente le milizie del Partito di Dio.
La crisi, o per meglio dire le crisi che rendono il Libano un malato agonizzante si abbattono giorno dopo giorno su una popolazione stremata. Chi può, prova a lasciare il paese. Chi resta fa i conti con una quotidianità che appare sempre più come un girone infernale.