di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 9 aprile 2022 – Il passo è stato fatto da un tribunale, su richiesta di un pubblico ministero. Ma dietro la decisione turca di trasferire alle autorità di Riyadh il caso dell’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi, avvenuto il 2 ottobre del 2018 nel consolato saudita a Istanbul, c’è senza ombra di dubbio la volontà politica del leader turco Recep Tayyip Erdogan di migliorare le relazioni con l’Arabia saudita, sua storica avversaria in Medio oriente. Dopo aver ridimensionato l’appoggio turco ai palestinesi in modo da rilanciare le relazioni con Israele, Erdogan ora svende la vicenda di Khashoggi per aprire la porta del dialogo con la monarchia Saud che per anni ha combattuto in ogni modo possibile in diplomazia e politica.
La compagna di Khashoggi, Hatice Cengiz, che oltre tre anni si batte per avere giustizia, ha annunciato che presenterà ricorso. La Turchia, ha detto Cengiz, «non è governata da una famiglia come in Arabia saudita. Faremo ricorso contro la decisione in linea con il nostro sistema legale». Il suo ottimismo cozzerà con la scelta di Erdogan resa concreta dalla decisione dei giudici: per mancanza di progressi nell’arresto dei sospettati, agenti dell’intelligence saudita e membri dell’entourage dell’erede al trono Mohammed bin Salman (MbS), il caso è stato affidato al procuratore capo saudita che il mese scorso ha richiesto di prendere in carico il procedimento. Se non ci saranno novità sul piano giudiziario in Turchia, tutti i coinvolti nell’assassinio di Khashoggi potranno rilassarsi: due anni fa un tribunale saudita ha già condannato otto agenti di scarso peso a pene detentive da sette a 20 anni in un processo farsa.
L’uccisione di Khashoggi – collaboratore del quotidiano Washington Post e noto oppositore della monarchia Saud – da parte di agenti sauditi, causò un forte clamore internazionale e fece conoscere il vero volto, di uomo privo di scrupoli e pronto a tutto pur di conservare il potere, del principe ereditario saudita, colpevolmente descritto come un «modernizzatore» da alcune personalità politiche straniere – come l’ex presidente del consiglio italiano Matteo Renzi – e da una parte della stampa internazionale. Khashoggi, che viveva negli Usa, dopo essere stato monitorato per mesi (pare con lo spyware israeliano Pegasus), fu attirato al consolato saudita di Istanbul per la firma di documenti riguardanti il suo matrimonio. Nel consolato fu brutalmente ucciso e fatto a pezzi da agenti dell’intelligence ripartiti subito dopo per Riyadh. Le autorità giudiziarie turche, grazie a filmati e registrazioni audio, furono in grado di ricostruire l’accaduto e di formulare accuse nei confronti di 26 cittadini sauditi. Erdogan tuonò più volte contro i sauditi. In seguito, la Cia fece sapere che quasi certamente era stato proprio il principe ereditario a ordinare l’assassinio di Khashoggi. Mohammed bin Salman ha sempre negato qualsiasi coinvolgimento. In ogni caso l’ex presidente Usa Donald Trump bloccò qualsiasi iniziativa americana contro l’alleato saudita.
In questi ultimi anni, le relazioni tra Riyadh e Ankara sono state tese anche a causa dell’embargo economico e diplomatico imposto dall’Arabia saudita e da altri tre paesi arabi (Bahrein, Emirati ed Egitto) nei confronti del Qatar, alleato di Ankara nella regione mediorientale. La fine del boicottaggio nel gennaio 2021 e il conseguente percorso di normalizzazione tra Riyadh e Doha ha influito anche sulle relazioni turco-saudite. «Il trasferimento del processo Khashoggi rafforzerà la convinzione delle autorità saudite di poterla fare franca», ha commentato con amarezza Michael Page, vicedirettore del Medio Oriente di Human Rights Watch. Pagine Esteri