di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 10 giugno 2022 – Imponenti manifestazioni stanno scuotendo da settimane il Pakistan, convocate dai movimenti politici e sociali contrari alle decisioni del nuovo governo in carica da qualche settimana e all’interno delle tensioni geopolitiche aggravate dalla guerra in Ucraina.

Ad un passo dal default
Dal 27 maggio, in particolare, è entrato in vigore un aumento dei prezzi dei carburanti alla pompa del 20%, condizione imposta dal Fondo Monetario Internazionale per sbloccare il pacchetto di assistenza finanziaria da 6 miliardi di dollari concesso al Pakistan nel 2019 e da allora sospeso per ben tre volte a causa delle presunte inadempienze. Dopo un lungo braccio di ferro, Islamabad ed il FMI hanno raggiunto un accordo nel corso di colloqui realizzati in Qatar, al termine dei quali l’esecutivo ha accettato di rimuovere i sussidi sui carburanti concessi dall’esecutivo precedente, in cambio dello sblocco di una tranche di aiuti di 900 milioni di dollari necessari al paese per evitare il default. Dopo l’accordo, il FMI ha deciso non solo di sbloccare il prestito, ma di aggiungere altri due miliardi di dollari ai sei già accordati nel 2019.

Il ministro delle Finanze di Islamabad, Miftah Ismail, ha rassicurato sul fatto che il paese non rischia più di precipitare in una crisi di liquidità analoga a quella che ha affondato recentemente lo Sri Lanka, ma il draconiano rialzo dei prezzi di carburanti, oli alimentari e altri generi di prima necessità che Islamabad deve acquistare sui mercati internazionali hanno eroso rapidamente le riserve di valuta estera del paese asiatico.

Inoltre i timori degli investitori hanno provocato un flusso di capitali in uscita che ha condotta ad una rapida svalutazione della rupia, il cui valore contro il dollaro è crollato in neanche due mesi del 10%.

Il ribaltone
Ismail è un esponente della Lega musulmana del Pakistan – Nawaz (Pml-N), partito uscito sconfitto dalle ultime elezioni che però è riuscito a spodestare il primo ministro Imran Khan tramite un contestatissimo ribaltone. Il Movimento per la Giustizia, formazione populista fondata e diretta dall’ex giocatore di cricket Imran Khan, era uscito vincitore delle elezioni del 2018 col 32% dei voti e 149 seggi su 342. Ma la coalizione di governo formata dopo il voto non ha tenuto.

Il 10 aprile scorso, infatti, le opposizioni – alle quali si sono aggiunti uno dei partiti dell’alleanza di governo e alcuni deputati dello stesso partito di Khan – hanno sfiduciato l’ex premier, sostituendolo con Shebhaz Sharif, Presidente della Lega Musulmana del Pakistan (Pml-N), partito conservatore e liberale fondato dal fratello ed ex primo ministro Nawaz. Quando Khan ha capito, dopo il tradimento di alcuni dei suoi deputati, che il parlamento si preparava a sfiduciarlo, ha provato a sciogliere l’Assemblea Nazionale e ad indire elezioni anticipate, ma è stato sconfessato da una sentenza della Corte Suprema che ha imposto l’iter che poi ha portato alla sua destituzione.

A sostenere il cambio di governo sono stati alcune delle lobby economiche dominanti e soprattutto i vertici militari – in un paese che conta nella sua breve storia un lungo elenco di colpi di stato – favorevoli ad un riavvicinamento del paese

a Washington, dal quale il Pakistan negli ultimi anni si è allontanato considerevolmente. A remare contro Khan soprattutto l’inflazione – che ha toccato quota 13% – e l’aumento del debito pubblico, oltre alle conseguenze disastrose di una lunga ed eccezionale ondata di calore che ha colpito negli ultimi mesi tutta la penisola indiana.

L’ultimatum di Khan

Dopo la perdita del potere Khan, ancora molto amato da ampi settori della popolazione, ha puntato a mantenere alta la mobilitazione sociale e a sottoporre il nuovo esecutivo ad un vero e proprio assedio. La scorsa settimana decine di migliaia di suoi sostenitori hanno inscenato una lunga “marcia su Islamabad” contro la quale il governo ha deciso di schierare l’esercito, e negli scontri – soprattutto a Lahore – sono rimasti uccisi e feriti un certo numero di manifestanti.
Partita da Peshawar, la manifestazione ha raggiunto la capitale. Per l’ennesima volta il leader populista – in passato criticato per i suoi “flirt” con i talebani afghani – ha accusato l’attuale esecutivo di aver realizzato una specie di golpe con il sostegno dei militari e di Washington, ed è tornato a chiedere immediate elezioni politiche, che evidentemente pensa di essere in grado di vincere di nuovo. Dopo aver ordinato ai suoi sostenitori riuniti davanti al Parlamento di Islamabad – provenienti soprattutto dalle province del Khyber e del Punjab – di sciogliere la manifestazione, ha lanciato un vero e proprio ultimatum a Sharif: se le elezioni non verranno convocate entro questa settimana, ha minacciato, «milioni di persone marceranno sulla capitale».

Le accuse agli Stati Uniti
Fin da quando l’ex opposizione ha iniziato le manovre per rimuoverlo dal potere, Khan ha presentato gli eventi come il risultato di un complotto ordito da alcune forze interne con il sostegno della Casa Bianca, accusata di voler imporre un vero e proprio “regime change”.
A spingere alcuni settori a voltargli le spalle, ha spiegato Khan, sarebbe stata il Vice Segretario di Stato americano Donald Lu quando ha avvisato l’ambasciatore pakistano negli Usa che la permanenza dell’ex campione di cricket al potere avrebbe “avuto ripercussioni” sui rapporti tra i due paesi.
Negli ultimi anni, infatti, Khan ha portato avanti una politica economica ed estera indipendente.

Imran Khan e Xi Jin Ping

Le relazioni con Pechino e l’avvicinamento a Mosca
Washington non ha mai gradito il graduale avvicinamento del paese alla Cina, attraverso ad esempio la firma di un gran numero di progetti di sviluppo nell’ambito del Corridoio Economico Cina-Pakistan (Cpec), un piano infrastrutturale promosso da Pechino che fa parte della Nuova Via della Seta (Belt and Road Initiative) per un totale di 62 miliardi di dollari di stanziamenti.

La goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso nei rapporti con Washington sarebbe stato il recente avvio di forti relazioni anche con la Russia. Il Pakistan si è astenuto all’Onu sulla mozione di condanna dell’invasione russa dell’Ucraina e sull’espulsione della Russia dal Consiglio dell’Onu sui Diritti Umani. In precedenza, ha sostenuto il ruolo russo di pacificazione tra Armenia e Azerbaigian e l’intervento in Kazakistan delle truppe – intervenute per sedare una rivolta contro il governo locale – dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO) guidate da Mosca. Poche ore prima che l’esercito russo varcasse il confine con l’Ucraina, il 23 febbraio Khan ha compiuto uno storico viaggio a Mosca per discutere dei gasdotti e degli oleodotti che l’impresa russa statale Gazprom vuole realizzare in Pakistan; in particolare è stato concordato che il Pakistan Stream, lungo 1100 km dalla Russia al Pakistan, sarà finanziato da entrambi i paesi e realizzato in collaborazione con imprese russe. Inoltre il Pakistan ha firmato un contratto per l’importazione da Mosca di 2 milioni di tonnellate di grano.
Storicamente il Pakistan è stato a lungo un alleato di ferro di Washington. È stato il Pakistan a distribuire ai mujaheddin i soldi e le armi provenienti dagli USA e dall’Arabia Saudita con l’obiettivo di indebolire i sovietici. Ma poi i rapporti si sono deteriorati quando gli Stati Uniti hanno cominciato ad avvicinarsi all’India, storico e acerrimo nemico di Islamabad, con cui il Pakistan è in stato di guerra praticamente dalla sua indipendenza nel 1947 a causa del conflitto sul controllo del Kashmir.
Dal 2010 Nuova Delhi ha iniziato a diminuire le importazioni di armi russe e ad aumentare quelle provenienti da Washington, da Parigi e da Tel Aviv. Dal 2014, invece, la Russia ha iniziato a vendere armi anche al Pakistan, che nel frattempo iniziava già ad avvicinarsi alla Cina.
Nell’autunno del 2021, quando Washington ha chiesto a Imran Khan di poter disporre di una base militare in Pakistan dalla quale sorvegliare l’Afghanistan dopo il ritiro delle truppe occidentali dal paese, l’allora primo ministro rispose con un secco «absolutely not». Khan, del resto, si è sempre opposto al sostegno dato dai governi precedenti all’occupazione statunitense dell’Afghanistan, costati al Pakistan 70 mila morti e centinaia di miliardi di dollari di mancato sviluppo economico. Invece Pechino ha investito più di 110 miliardi di dollari in Pakistan che intende trasformare in un pilastro della cosiddetta Nuova Via della Seta, e vuole realizzare un gasdotto per portare il gas iraniano in Cina risparmiandosi i lunghi viaggi delle navi cisterna.

Imran Khan e Vladimir Putin

È indubbio che la politica di Khan abbia suscitato la reazione della Casa Bianca, ma è anche vero che le forti relazioni economiche e militari tra Pechino e Islamabad risalgono quantomeno al 2015, anni prima che il leader populista conquistasse il potere. Infatti la diplomazia cinese ha reagito in maniera pragmatica e misurata al regime change, convinta che gli stretti legami tra i due paesi non possano essere messi seriamente a rischio da Sharif e neanche dal potente esercito pakistano, che pure è sempre stato più incline a rapporti privilegiati con Washington. L’opinione pubblica, del resto, è in generale assai più incline a sostenere un’alleanza con Pechino – che negli ultimi decenni ha prestato 40 miliardi di dollari a Islamabad e ha finanziato numerose infrastrutture energetiche e la modernizzazione delle vie di trasporto – piuttosto che con gli Stati Uniti. Anche la maggior parte delle armi in dotazione all’esercito pakistano, ormai, provengono dalla Cina.
A contrastare i rapporti con Pechino sono invece i movimenti automisti e indipendentisti dello stato pakistano del Belucistan. Lo scorso 26 aprile un attentato suicida, realizzato da un presunto membro dell’Esercito di Liberazione del Belucistan, ha causato la morte di quattro persone. L’attacco ha preso di mira, davanti all’Università di Karachi, un van che trasportava il direttore del locale Istituto Confucio (l’ente culturale di Pechino all’estero), un insegnante, un volontario e l’autista pakistano.

Un paese strategico

I prossimi giorni saranno cruciali per capire quale direzione prenderà un paese come il Pakistan – abitato da 200 milioni di persone – che ha un carattere strategico per gli equilibri geopolitici nello scacchiere asiatico ed è dotato di un consistente arsenale atomico. L’estrema tensione delle ultime settimane, sommata ad una situazione di crisi economica che l’accordo col FMI ha solamente tamponato, potrebbe avere infatti un effetto detonante. A meno che i due leader Sharif e Khan non trovino un accordo e decidano di abbassare la tensione. Pagine Esteri

* Marco Santopadre, giornalista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e del Nord Africa. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale.

 

LINK E APPROFONDIMENTI:

 

https://time.com/6182411/us-pakistan-china-imran-khan/

https://thediplomat.com/2022/04/government-change-in-islamabad-will-not-derail-china-pakistan-relations/

https://www.aljazeera.com/news/2022/4/15/what-pakistan-political-shakeup-means-for-relations-with-us

https://www.aljazeera.com/opinions/2022/3/3/why-was-pakistans-pm-in-russia-amid-ukraine-invasion

https://www.dawn.com/news/1642846

https://foreignpolicy.com/2022/04/25/pakistan-military-imran-khan-hybrid-democracy/