di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 13 febbraio 2023 – Ormai, ovunque, la parola d’ordine è aumentare le spese militari, e per trovare risorse aggiuntive molti governi non si fanno scrupoli a saccheggiare i bilanci dell’istruzione, della sanità, del welfare. Alcuni esecutivi, poi, pur di fare cassa orchestrano soluzioni “creative”.
Via il “Grande giorno della preghiera”
È il caso del nuovo governo danese che, pur di rastrellare fondi da destinare al bilancio della Difesa, ha deciso di abolire lo “store bededag”, il “Grande giorno della preghiera”.
La premier socialdemocratica Mette Frederiksen – che a dicembre ha formato una coalizione con Liberali e Moderati, due formazioni rispettivamente di centrodestra e di centro – ha inserito la cancellazione della festività nel programma di governo, insieme ai tagli fiscali per i redditi più alti e a una riforma della sanità che premia i gruppi privati.
L’esecutivo assicura che la misura porterebbe a maggiori introiti per lo stato di 430 milioni di euro, che permetterebbero al paese di portare la spesa militare al 2% del Pil – come richiesto dall’Alleanza Atlantica – già nel 2030, raggiungendo l’obiettivo con tre anni di anticipo rispetto a quanto concordato nel marzo 2022 da socialdemocratici, Partito Socialista-Popolare, Liberali e Conservatori.
Per l’esecutivo i quasi 4 miliardi di euro che il paese ha speso per la Difesa nel 2022 – l’1% del Pil – sono troppo pochi per far fronte alla “minaccia russa” e per continuare a sostenere militarmente l’Ucraina. A gennaio, tra l’altro, un rapporto semestrale della NATO criticava la Danimarca per non aver investito sufficienti risorse nelle sue forze armate.
La Danimarca dice no
Ma il disegno di legge presentato dalla coalizione di governo ha scatenato nel piccolo paese nordico una levata di scudi generalizzata. Secondo un recente sondaggio ben il 75% dei danesi sarebbe contrario al provvedimento che pretende di eliminare, già dal 2024, la festa tradizionale che cade il quarto venerdì successivo alla domenica di Pasqua, istituita nel lontano 1686.
Sul piede di guerra ci sono sia le chiese protestanti sia i sindacati che, per motivi in parte diversi, nel paese nordico hanno dato vita ad una mobilitazione senza precedenti.
Una petizione online ha raccolto in pochi giorni quasi 500 mila firme, e domenica 5 febbraio quasi 50 mila persone provenienti da tutta la Danimarca hanno protestato nella piazza del palazzo di Christiansborg a Copenaghen, sede del Parlamento, per chiedere all’esecutivo di ritirare il provvedimento. Era da almeno un decennio che in Danimarca non si assisteva a una manifestazione così partecipata.
La protesta dei sindacati
In piazza sono scesi, soprattutto, i militanti della FH, la Confederazione dei Sindacati, un’organizzazione che riunisce 79 organizzazioni e conta 1,3 milioni di affiliati in un paese di appena 6 milioni di abitanti. In prima fila nella protesta anche tutti i partiti di sinistra, dall’Alleanza rosso-verde fino ai comunisti passando per il Partito Socialista Popolare e formazioni ecologiste.
La Chiesa Evangelico-Luterana, ovviamente, è nettamente schierata contro la decisione di Frederiksen, ma l’opinione contraria è sorretta nella maggioranza dei casi da considerazioni di ordine politico e sociale piuttosto che religiose.
Genera indignazione il fatto che l’esecutivo abbia scelto di penalizzare la classe lavoratrice per recuperare risorse da destinare alla spesa bellica.
«Non credo sia un problema dover lavorare un giorno in più. Stiamo affrontando enormi spese per la difesa e la sicurezza» ha detto Mette Frederiksen presentando al parlamento il proprio programma di governo.
Ma i sindacati insistono nel difendere un giorno di riposo, per quanto la Danimarca sia tra i paesi europei in cui si lavora meno ore. «Abbiamo bisogno di tempo per riprenderci fisicamente e mentalmente, e per concentrarci sulle nostre famiglie e su noi stessi» ha spiegato all’emittente pubblica danese DR un educatore che partecipava alla manifestazione.
Inoltre, ha accusato la segretaria generale della Confederazione dei Sindacati Lizette Risgaard, la decisione del governo attacca il “modello danese”, nel quale la retribuzione e l’orario di lavoro vengono regolati da accordi bilaterali negoziati dalle organizzazioni dei lavoratori e da quelle degli imprenditori, senza l’intervento dello stato. Anche i sindacati dei dipendenti del settore militare hanno protestato contro il provvedimento.
Il no all’escalation
Non mancano poi gli economisti che contestano gli studi governativi, secondo i quali l’aggiunta di una giornata lavorativa permetterebbe di generare maggiori introiti per 3,2 miliardi di corone, attraverso l’aumento delle entrate fiscali e la riduzione dei sussidi. Le risorse rastrellate, secondo alcuni studi, sarebbero assai più contenute, rendendo la misura inutile, oltre che ingiusta. Oltretutto nelle scorse settimane, nel tentativo di ammorbidire i sindacati, l’esecutivo ha offerto un aumento dei salari dello 0,45% come compensazione per la perdita di un giorno di ferie pagate.
Una parte dell’opinione pubblica, poi, sia per motivi etici sia politici, rimane contraria all’aumento della spesa militare, anche se alcuni dei partiti della sinistra l’hanno sostenuto nella precedente legislatura e, assieme alle opposizioni di destra, hanno presentato per gonfiare comunque il budget della Difesa che non prevede l’abolizione di una delle undici festività annuali.
Molti manifestanti, domenica scorsa, portavano cartelli che recitavano «Dì no alla guerra».
Il quotidiano Politiken, il più prestigioso del Paese e con una linea editoriale di centrosinistra, ha definito un “autogol incomprensibile” il piano della premier, che però sembra non voler tener conto delle proteste, anche se secondo i sondaggi il suo partito ha subito un tracollo nelle intenzioni di voto.
Già dieci anni fa un altro governo, sempre a guida socialdemocratica, tentò di eliminare lo “store bededag” ma dovette rinunciare a causa delle forti proteste.
Sostegno a Kiev e coscrizione obbligatoria per le donne
Nelle ultime settimane, intanto, l’esecutivo ha deciso di inviare a Kiev un certo numero di tank Leopard1, dopo aver già ceduto all’Ucraina 19 sistemi Caesar di fabbricazione francese, degli obici montati su camion che possono colpire bersagli anche a sei chilometri di distanza.
Come se non bastasse, in un’intervista alla tv pubblica danese, il ministro della Difesa e vicepremier di Copenaghen Jakob Ellemann-Jensen ha affermato che il governo intende imporre la coscrizione militare obbligatoria a sorteggio anche per le donne, al fine di aumentare le dimensioni e l’efficienza delle proprie forze armate.
Attualmente, le donne possono entrare nell’esercito solo su base volontaria mentre se vengono scelti tramite un sistema a sorteggio, gli uomini sono obbligati a prestare il servizio militare; normalmente la naia dura quattro mesi, ma in alcune circostanze può arrivare fino a dodici. Nei fatti, sebbene la legge consenta alle forze armate di imporre il servizio militare, attualmente solo l’1% degli effettivi delle forze armate del paese nordico viene arruolato in questo modo. Evidentemente l’esecutivo sta pensando di aumentare questa quota.
In Europa solo due paesi prevedono la coscrizione militare obbligatoria per le donne: la Norvegia dal 2013 e la Svezia dal 2018. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.