di Marco Santopadre*

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Pagine Esteri, 30 gennaio 2023 – Nelle settimane scorse ha tenuto banco lo scontro interno ai paesi della Nato sulla fornitura all’esercito di Kiev dei carri armati di fabbricazione tedesca Leopard 2. Dopo un lungo braccio di ferro tra Washington e Berlino, alla fine il governo Scholz ha accettato di inviarne alcuni in Ucraina e di permettere agli altri paesi europei che li hanno in dotazione di fare altrettanto. Al tempo stesso anche Washington ha deciso l’invio a Kiev di alcune decine di tank Abrams.
L’Alleanza Atlantica e Volodymyr Zelenskyi si sono detti entusiasti del nuovo passo che coinvolge ulteriormente l’Europa in un’escalation che sembra avvitarsi sempre più su se stessa. Dal punto di vista militare, però, la decisione non dovrebbe avere ripercussioni tali da “accorciare la guerra”, come qualcuno ha sostenuto, o in grado di cambiare le sorti del conflitto in corso. Anche dei lanciarazzi Himars, concessi dalla Casa Bianca a Kiev alcuni mesi fa, si diceva che avrebbero segnato una svolta nella guerra, ma per quanto abbiano dato una mano non indifferente all’esercito ucraino non si sono rivelati certo risolutivi. Lo stesso presidente ucraino, d’altronde, dei carri armati “in arrivo” afferma che soprattutto sosterranno lo spirito del proprio esercito.

I tank a Kiev non cambieranno le sorti della guerra
I 31 Abrams M1 statunitensi non giungeranno in Ucraina prima dell’autunno. Washington infatti non invierà parte di quelli già in dotazione alle proprie forze armate, ma dovrà aspettare che gli esemplari da spedire vengano fabbricati.
Anche i Leopard 2 tedeschi, comunque, non potranno essere inviati in Ucraina prima della fine di marzo, non è chiaro se in tempo per contrastare la grande offensiva che il generale russo Gerasimov starebbe preparando in coincidenza con l’anniversario dell’invasione.
Indubbiamente, sia i tank statunitensi sia quelli tedeschi forniranno a Kiev una potenza di fuoco e una precisione di tiro maggiori rispetto a quelle che sono in grado di garantire i carri armati di fabbricazione sovietica utilizzati dalle forze armate ucraine, peraltro decimati nel corso degli ormai 11 mesi di guerra. I carri di ultima generazione ceduti a Kiev sono anche superiori anche ai modernissimi T 90-M russi.

Ma i circa 300 mezzi corazzati che dovrebbero rimpolpare gli arsenali ucraini – di cui però Leopard e Abrams dovrebbero rappresentare appena un terzo del totale – non saranno sufficienti a tenere testa alle migliaia di carri in dotazione alle truppe russe.

Inoltre, per addestrare il personale militare ucraino ad utilizzare i mezzi tedeschi e statunitensi occorreranno diversi mesi. L’esercito di Kiev si troverà ad utilizzare diversi modelli di carro armato, compresi i Challenger promessi da Londra, creando rilevanti difficoltà logistiche alle truppe ucraine: gli uomini addestrati per gestirne un tipo non necessariamente saranno in grado di fare lo stesso con gli altri modelli. I reparti di carristi non saranno intercambiabili.
Ad essere formati dovranno poi essere anche diverse centinaia di tecnici, per non parlare del fatto che per mantenere efficiente la flotta di tank all’avanguardia servirà un’ingente e continua disponibilità di pezzi di ricambio.


Il problema delle munizioni
Infine, c’è la non secondaria questione delle munizioni. Quelle utilizzate dai mezzi corazzati spediti a Kiev dai paesi della Nato sono di un calibro diverso rispetto a quelle sparate dai tank sovietici in uso finora alle truppe ucraine. E anche quelle, quindi, dovranno arrivare copiosamente da occidente. Ma non è affatto scontato che le forze armate ucraine possano contare sulla necessaria disponibilità di munizioni.

Così come sono restii a cedere a Kiev un numero consistente di carri armati tra i più moderni, gli eserciti della Nato difficilmente trasferiranno in Ucraina i propri stock di munizioni, anche tenendo conto che negli ultimi decenni tanto i paesi europei quanto gli Stati Uniti hanno smantellato buona parte della propria capacità produttiva. Se dopo la Seconda Guerra Mondiale Washington poteva contare su più di 80 fabbriche di munizioni, oggi ne possiede sono sei. Per invertire la tendenza, fa notare Gianandrea Gaiani in un’intervista all’AGI, all’apparato militare-industriale della Nato servirebbero investimenti miliardari e alcuni anni.
Per questo la Nato si sta rivolgendo ad altri paesi che possono contare su un assetto militare-industriale più convenzionale. Ma Washington e i suoi alleati stanno ricevendo anche dei ‘no’.

Il ‘no’ del Brasile
L’ultimo – il più significativo, finora – lo ha pronunciato il brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva. L’esponente socialdemocratico eletto presidente il 30 ottobre ha posto il veto ad un’ingente fornitura di munizioni per i Leopard destinati a Kiev chiesta dal governo tedesco. Trattandosi di munizioni da 105mm, adatti ai Leopard 1 in dotazione alle forze armate brasiliane (mentre il più moderno Leopard 2 utilizza colpi da 120mm) evidentemente Scholz intendeva trasferire a Kiev alcune decine di esemplari del vecchio modello, ipotesi accantonata nei giorni seguenti.
Secondo il quotidiano “Folha de Sao Paulo”, a proporre la vendita delle munizioni era stato, il 20 gennaio scorso, l’allora comandante dell’Esercito, generale Julio Cesar de Arruda (in seguito rimosso dal suo incarico per altre vicende) dopo aver avuto contatti con Berlino. D’altronde il Brasile, pur avendo condannato all’Onu l’invasione del 24 febbraio, mantiene una posizione neutrale per motivi economici e geopolitici rifiutandosi, ad esempio, di imporre sanzioni alla Russia.

Anche il Portogallo, che su pressioni americane nei giorni scorsi aveva promesso a Kiev alcuni dei suoi 37 Leopard, ha fatto poi sapere che l’invio è messo fortemente in dubbio «dal pessimo stato di conservazione» dei carri da combattimento in dotazione al suo piccolo esercito.

L’industria bellica USA va a gonfie vele
Le pressioni di Washington su Berlino evidenziano in modo chiaro che gli Stati Uniti stanno approfittando della crisi ucraina, oltre che per rinsaldare il proprio primato militare in Europa, anche per sostenere la produzione e l’esportazione delle proprie armi.
La scelta, ad esempio, di inviare a Kiev degli Abrams ancora da fabbricare invece di quelli già a disposizione (causando un ritardo nella consegna di molti mesi), rivela che la mossa mira a sostenere l’industria nazionale degli armamenti. Gli USA potrebbero anche approfittare del fatto che i loro alleati europei dovranno disfarsi di una parte del proprio stock di Leopard per cercare di piazzare gli Abrams, tentando di scalzare il tradizionale monopolio delle forniture tedesche nel continente.

Del resto, la crisi ucraina ha già provocato un’impennata delle vendite di armi statunitensi nel mondo negli ultimi 12 mesi. Nel 2022 le aziende belliche statunitensi ne hanno vendute per 153,7 miliardi di dollari, rispetto ai 103,4 del 2021. Il boom è del 49%.

L’acquirente principale delle armi a stelle e strisce è sempre la Germania (8,4 miliardi), che a luglio ha ordinato 35 caccia F-35. In graduatoria Berlino è seguita dalla Polonia, che ha speso 6 miliardi, il grosso dei quali per l’acquisto di 250 carri Abrams. Dietro Varsavia ci sono il Regno Unito, la Spagna e la Bulgaria; ad aprile Sofia ha ordinato otto caccia F16 per un valore di 1,7 miliardi. Nella zona dell’Indo-Pacifico, poi, spicca l’Indonesia, che ha comprato tredici F15 per un valore di 14 miliardi.


Mosca non mostra segnali di crisi
Com’era ampiamente prevedibile, la polarizzazione dello scontro internazionale sta favorendo nettamente gli Stati Uniti, almeno nel fronte occidentale e nell’Indo-Pacifico.
Sul campo, nel frattempo, i russi hanno ripreso l’iniziativa militare anche sul terreno dopo la disordinata ritirata da Kharkiv e Kherson. «Stanno avanzando lentamente, ma progressivamente, nel Donbass, stanno scardinando le difese ucraine sull’asse Siversk a Bakhmut e stanno avanzado a Zaporizhzhia. (…) Hanno accorciato il fronte e ridotto il peso della loro inferiorità numerica facendo affluire volontari e riservisti, che stanno addestrando anche per future operazioni» dice Gaiani.

Anche Eugene Rumer, direttore del programma “Russia ed Eurasia” del think tank statunitense Carnegie Endowment for International Peace (ex membro del National Intelligence Council durante l’amministrazione Obama), in un’intervista rilasciata al quotidiano spagnolo elDiario, afferma di non vedere alcun segno di arretramento o di cedimento da parte di Mosca. «La determinazione di Putin a continuare questa guerra non è diminuita. A fine dicembre ha avvisato i russi che devono prepararsi ad una lunga guerra, non solo ad una limitata operazione militare» afferma Rumer, secondo il quale l’invio dei tank a Kiev non causerà alcuna svolta sostanziale nello scontro militare.
Il popolo russo, aggiunge, non mostra particolari segni di sofferenza o di scontento: «L’economia russa è in calo, ma solo del 3%, a differenza di quella ucraina che subisce terribili perdite». Inoltre, spiega Rumer, la guerra in Ucraina sta distraendo gli Stati Uniti dalla regione Asia-Pacifico, consumando ingenti risorse statunitensi, il che non può che far piacere alla Cina che nel frattempo, pur non sostenendo direttamente Mosca nello sforzo bellico, ha comunque guadagnato influenza sulla Russia. Per questo Pechino non avrebbe alcuna seria intenzione di convincere Vladimir Putin a fermare le operazioni militari contro Kiev, anche se effettivamente l’accelerazione militare della competizione globale danneggia la Repubblica Popolare. – Pagine Esteri

* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.