di Valeria Cagnazzo

Pagine Esteri, 27 marzo 2023 – Il 2022 è stato il più sanguinoso degli ultimi dieci anni per i bambini della regione del Sahel. A renderlo noto un recente rapporto dell’Unicef, l’agenzia dell’Onu per i diritti dell’infanzia. Oltre dieci milioni di bambini in Burkina Faso, Mali e Niger, si legge, hanno bisogno di assistenza umanitaria: a mettere a repentaglio le loro vite, in una delle regioni più povere del pianeta, insieme alla fame endemica è la violenza dei conflitti armati, a cui si aggiungono le conseguenze del cambiamento climatico.

“Il conflitto (in queste aree, ndr) può non avere confini precisi, forse non ci sono battaglie da prima pagina, ma lentamente e senza dubbio le cose si stanno facendo ogni giorno peggiori per i bambini”, ha dichiarato il portavoce dell’Unicef, John James. “Milioni di loro sono adesso intrappolati nel mezzo della crisi”.

L’Unicef ha definito “brutale” il conflitto che devasta il Sahel e che ha trovato proprio nei bambini i suoi principali bersagli. Da oltre dieci anni, la crescente insicurezza politica degli Stati ha lasciato sempre più spazio ai gruppi jihadisti, che quotidianamente compiono attacchi terroristici contro le milizie governative ma soprattutto contro i civili per il controllo di villaggi e giacimenti d’oro e di altre materie prime. A pagarne le spese, nel 2022 più che negli anni precedenti, sono stati i bambini.

Nei tre Paesi in questione, infatti, centinaia di bambini sono stati rapiti dai gruppi ribelli e se ne sono perse le tracce. Molti altri sono morti a causa delle ferite da arma da fuoco riportate negli scontri nei loro villaggi o dall’esplosione di ordigni bellici. In Burkina Faso, che ha subito due colpi di stato l’anno scorso, la violenza dei gruppi jihadisti ha provocato nei primi nove mesi del 2022 la morte di un numero di bambini tre volte superiore rispetto al 2021. Ai bambini uccisi, si sommano quelli costretti dalle milizie ribelli a impugnare le armi e a unirsi alle loro file come bambini-soldato.

La nuova strategia bellica dei gruppo jihadisti ha messo ulteriormente a repentaglio i più piccoli, in Paesi in cui l’età media della popolazione è bassissima e almeno il 60% degli abitanti sono minorenni. Se prima il bersaglio dei jihadisti era l’esercito governativo, e se i civili venivano colpiti negli scontri si trattava di “casualties”, adesso nel mirino della violenza dei ribelli ci sono proprio gli anziani, le donne e i bambini che vivono pacificamente nei villaggi. Colpendo loro, la forza jihadista dimostra la propria superiorità su uno Stato assente e debole, e conquista territori senza incontrare resistenza. Centinaia di bambini rimangono così uccisi negli attacchi.

Se non muoiono negli scontri, a ucciderli può essere la fame. Un’altra strategia dei gruppi ribelli dal 2021, in una delle aree più malnutrite del mondo, è quella di contaminare le fonti idriche e di distruggere le riserve di cibo che incontrano al loro passaggio. Affamare i villaggi vuol dire assoggettarli, mentre lo Stato latita. Per l’organismo di un neonato e di un bambino, la malnutrizione significa arresto della crescita, danni neurologici, infezioni severe, e, infine, morte.

Anche le scuole sono nel mirino dei jihadisti. I gruppi armati ribelli danno fuoco agli edifici e rapiscono o uccidono gli insegnanti. Le conseguenze sono drammatiche. Oltre 8.300 scuole sono state chiuse nel Sahel: si parla di una scuola su cinque in Burkina Faso e quasi una su tre nella regione di Tillaberi in Niger. “Gli insegnanti sono costretti a fuggire, i bambini hanno troppa paura di andare a scuola, le famiglie sfollano dai loro villaggi, gli edifici vengono distrutti”, spiega John James.

Alla violenza, si aggiunge il cambiamento climatico a mettere a repentaglio ulteriormente la vita dei bambini. Nel Sahel centrale, infatti, gli effetti del surriscaldamento globale sono tra i più drammatici del pianeta, con temperature che aumentano 1,5 volte più rapidamente rispetto alla media mondiale. Le risorse idriche si stanno prosciugando, e al tempo stesso le precipitazioni irregolari possono diventare a volte così violente da provocare alluvioni che distruggono i raccolti. Si stima che finora il cambiamento climatico abbia prodotto nei tre Paesi oltre 2,7 milioni di sfollati, costretti a vivere da profughi in condizioni di estrema miseria. Per le famiglie che non lasciano il proprio villaggio, l’incertezza climatica significa fame, sete, malattie e spesso la perdita dei propri figli.

La crisi umanitaria in quest’area è destinata, secondo l’Unicef, a peggiorare se non si interverrà con aiuti internazionali e se i governi interni non investiranno in maniera prioritaria nella protezione dei civili e nell’accesso ai servizi di assistenza primaria. Si sta, tra l’altro, già espandendo con la sua violenza ai Paesi vicini, come il Togo e il Benin. L’Agenzia dell’Onu ha lanciato un appello di 473,8 milioni di dollari per il Sahel centrale per il 2023, e nel suo report lancia un allarme per i mesi a venire: sarà da giugno ad agosto 2023 che la crisi umanitaria avrà gli effetti “più catastrofici” sulla vita dei bambini del Sahel.