di Marco Santopadre

Pagine Esteri, 22 settembre 2023 – L’ennesimo assalto militare azero alla Repubblica di Artsakh è durato solo poche ore, tra il 19 e il 20 settembre, ma è bastato per costringere gli armeni alla resa.
Isolati e indeboliti da dieci mesi di assedio, durante i quali i nazionalisti azeri travestiti da “ecologisti” hanno bloccato il corridoio di Lachin (l’unico accesso dalla madrepatria all’enclave armena) impedendo il passaggio di cibo e medicinali, gli armeni del Nagorno-Karabakh non sono riusciti a tenere testa alle truppe di Baku armate da Turchia e Israele.
Pur di evitare un bagno di sangue, le autorità di Stepanakert – la capitale della piccola repubblica autoproclamata dagli armeni all’inizio degli anni ’90 all’interno del territorio dello stato azerbaigiano – hanno dovuto capitolare.
Ieri mattina, mentre le delegazioni dell’Artsakh e dell’Azerbaigian si incontravano a Yevlakh per definire i dettagli della resa e dello smantellamento della piccola repubblica armena, a Stepanakert numerosi testimoni hanno denunciato sparatorie e l’avanzata delle truppe azere, in violazione del cessate il fuoco varato il 20 settembre con la mediazione russa.

Inizialmente sembrava che l’ultimo attacco azero al Nagorno-Karabakh avesse provocato poche vittime, ma nelle ultime ore il bilancio è stato elevato a circa 200 morti e 400 feriti, per lo più appartenenti alle forze di autodifesa della Repubblica di Artsakh. Purtroppo il conteggio include anche alcune decine di civili.

Anche una pattuglia di soldati russi, appartenenti alla forza dispiegata da Mosca nel 2020 per monitorare il rispetto del cessate il fuoco raggiunto al termine del conflitto di 44 giorni durante il quale Baku ha ripreso la maggior parte dei territori persi agli inizi degli anni ’90, è caduta in un’imboscata dell’esercito azero nella zona di Dzhanyatag. Sotto il fuoco dei militari di Baku sarebbero morti ben 6 soldati di Mosca, tra cui il vicecomandante del contingente russo Ivan Kovgan. Il dittatore azero Aliyev si è ufficialmente scusato con il Cremlino ed ha sospeso il comandante delle truppe inviate in Nagorno-Karabakh in attesa dell’esito di un’inchiesta sull’accaduto.

Lo spettro della pulizia etnica
Le truppe russe hanno affermato di aver evacuato già migliaia di abitanti armeni della regione, e altre migliaia starebbero cercando di abbandonare l’enclave assediata per sottrarsi alle rappresaglie azere. Il difensore civico del Nagorno-Karabakh, Ghegham Stepanian, denuncia una “catastrofe”.
Secondo i termini dell’accordo imposto con le armi da Baku in quella che il regime di Aliyev ha ribattezzato “operazione antiterrorismo”, le forze di autodifesa dell’enclave armena devono consegnare le armi e cedere il controllo del territorio alle truppe azere. Di fatto la prospettiva è quella dello scioglimento dell’entità statuale autoproclamata ormai trent’anni fa dagli armeni dell’Azerbaigian. Si profila un esodo forzato verso l’Armenia dei circa 120 mila abitanti dell’enclave e l’azzeramento della millenaria presenza armena in territori che l’Unione Sovietica aveva deciso di trasformare in una Repubblica Autonoma annessa all’Azerbaigian e che poi, con lo sfaldamento dello stato socialista e in seguito a una sanguinosa guerra con Baku e la conseguente cacciata degli abitanti azeri, si era proclamata indipendente.
Il regime di Ilham Aliyev da una parte esulta per la sconfitta dei “terroristi” e il recupero della sovranità nazionale su tutto il territorio statale, dall’altra assicura che i diritti politici, civili, religiosi e culturali degli armeni saranno garantiti nel rispetto della Costituzione dell’Azerbaigian. Ma, ha avvisato il dittatore (al potere dal 2003 e preceduto da dieci anni di potere assoluto del padre), chi non accetterà di integrarsi dovrà andarsene, come hanno già fatto migliaia di armeni scappati o cacciati dai territori della Repubblica di Artsakh riconquistati da Baku nel 2020 e ripuliti etnicamente.

L’Armenia sempre più sola
La Repubblica Armena è di nuovo sotto shock per l’ennesima e storica disfatta e la consapevolezza di un isolamento quasi assoluto a livello internazionale che mette a rischio la sua stessa sopravvivenza. Il regime azero infatti ha già aggredito lo scorso anno il territorio dello stato armeno e rivendica apertamente il carattere azero di buona parte del suo territorio. Il casus belli è rappresentato dalla contesa per il raggiungimento della continuità territoriale tra l’Azerbaigian e una sua exclave – la Repubblica di Nakhchivan – separata dalla madrepatria da una larga striscia di territorio armeno. Per ottenere il collegamento con l’exclave Baku potrebbe pensare di impossessarsi di una porzione di Armenia approfittando della evidente debolezza di Erevan abbandonata dagli storici alleati e soverchiata dalla potenza militare ed economica di Baku.
Mentre l’Armenia ha davvero poco da offrire, negli ultimi anni l’Azerbaigian è diventato una potenza energetica emergente, sostenuta dalla Turchia e finanziata da una lunga lista di paesi che acquistano i suoi idrocarburi e che, pur solidarizzando con Erevan e criticando gli eccessi di Aliyev, si guardano bene dall’imporre sanzioni al regime di Baku.

Il governo dell’Armenia ha fatto di tutto pur di rimanere fuori dall’ennesimo scontro militare tra i cugini dell’Artsakh e gli azeri, temendo un’espansione dei combattimenti nel suo territorio. D’altronde ormai il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha riconosciuto l’appartenenza all’Azerbaigian del Nagorno-Karabakh, cedendo alle rivendicazioni di Baku.
Pashinyan ci ha tenuto, con varie dichiarazioni, a segnare le distanze con l’amministrazione dell’Artsakh e l’estraneità ai combattimenti – Erevan ha ritirato le sue ultime unità militari dall’enclave armena nel 2021 – accusando anzi “attori interni ed esterni” di voler coinvolgere il paese in un disastro.

«Se le forze di pace russe hanno avanzato la proposta di porre fine alle ostilità e di sciogliere l’esercito dell’Artsakh, significa che si sono completamente assunte l’obbligo di garantire la sicurezza degli armeni del Nagorno-Karabakh» ha affermato il primo ministro armeno. Secondo Pashinyan le forze di pace russe dovrebbero garantire condizioni adeguate affinché «gli armeni del Nagorno-Karabakh possano godere del pieno diritto di vivere nelle loro case e sul loro suolo».

Il tradimento russo
Tra Erevan e Mosca le relazioni non sono mai state così deteriorate, e in Armenia monta la rabbia per l’inerzia delle truppe russe di fronte all’ennesima aggressione militare azera preceduta dal micidiale assedio durato dieci mesi.
La Russia, impantanata in Ucraina, certo non desidera essere coinvolta in un conflitto nel Caucaso nonostante il patto militare con l’Armenia (sul cui territorio possiede una base militare) e l’impegno, assunto nel 2020 con il dispiegamento di 2000 peacekeepers nei territori contesi, a garantire il rispetto del cessate il fuoco.
Oltretutto Mosca ha sviluppato negli ultimi anni ottime relazioni economiche e anche militari con il regime di Ilham Aliyev, al quale Gazprom fornisce ogni anno 1 miliardo di tonnellate di gas che poi Baku rivende a caro prezzo ai paesi occidentali, gli stessi che dopo l’aggressione militare russa all’Ucraina hanno disdetto i contratti con la Russia e cercato fonti alternative di idrocarburi.
«L’Azerbaigian agisce sul proprio territorio, che l’Armenia ha riconosciuto quindi si tratta di un affare interno dell’Azerbaigian» ha detto il portavoce del Cremlino, Dimitrij Peskov, imitato da Vladimir Putin.

Il “voltafaccia” di Pashinyan
Dimitrij Medvedev, presidente del Consiglio di Sicurezza russo, sui social ha invece fatto intendere che l’Armenia merita il destino che la attende, colpevole di aver flirtato con la Nato.
Che il leader armeno abbia cercato a occidente il sostegno non più proveniente da Mosca è innegabile, d’altronde Pashinyan è diventato premier per la prima volta nel 2018 in seguito a dei moti di piazza filostatunitensi e filoeuropei. Ma la versione russa che punta il dito esclusivamente sulle responsabilità del premier armeno sorvolando su quelle del regime di Putin è quanto mai di parte.
Quando nel 2020 l’Azerbaigian ha aggredito l’Artsakh e le truppe armene, forte dei droni da bombardamento turchi Bayraktar e delle truppe addestrate da ufficiali di Ankara, l’intervento di Mosca impedì una disfatta totale, obbligando però Erevan ad affidarsi completamente alla Russia per non soccombere. Ma il tempo ha dimostrato che la Federazione Russa non aveva alcun interesse a difendere realmente l’Armenia e men che meno l’Artsakh, e non ha mosso un dito per bloccare le ulteriori aggressioni azere. Mosca non è intervenuta a sostegno di Erevan neanche quando, nel settembre 2022, Baku ha attaccato direttamente la Repubblica Armena e questa ha chiesto l’intervento dell’Organizzazione del trattato sulla sicurezza collettiva (CSTO), un’alleanza militare regionale guidata dalla Russia che oltretutto con Erevan ha un accordo militare di difesa mutua.
Negli ultimi mesi, mentre l’inerzia russa convinceva Baku che era venuto il momento di tentare la spallata finale, Pashinyan e i suoi ministri hanno iniziato a cercare un’alternativa all’inefficace scudo russo, irritando però ancora di più Putin senza al tempo stesso garantirsi una difesa efficace da parte dei nuovi alleati, cioè gli Stati Uniti e la Francia, ma anche l’India e l’Iran.
Quando l’11 settembre una manciata di militari armeni ha iniziato ad addestrarsi insieme a un numero equivalente di soldati statunitensi, il viceministro degli Esteri russo Sergei Ryabkov ha dichiarato che le esercitazioni (le “Eagles Partner 2023“) congiunte con un paese della Nato violavano lo “spirito” del partenariato militare con Mosca. Pochi giorni prima, Erevan ha ritirato il proprio rappresentante presso il CSTO accusando il blocco militare di complicità oggettiva con l’Azerbaigian, mentre la moglie di Pashinyan visitava Kiev, l’Armenia inviava aiuti umanitari simbolici all’Ucraina e avviava l’iter di adesione alla Corte Penale Internazionale. Per tutta risposta la Russia ha convocato l’ambasciatore armeno per illustrare le proprie rimostranze.
Nel frattempo l’Azerbaigian ha ammassato per settimane le proprie truppe a ridosso dell’Artsakh, facendo poi scattare i bombardamenti e le incursioni. Putin ha lasciato fare. Forse a Mosca sperano che l’isolamento di Pashinyan e i suoi errori gli costino la carica di primo ministro, magari a vantaggio di un personaggio più vicino ai propri interessi. Ma nel paese il risentimento nei confronti della Russia non ha mai raggiunto livelli così alti e comunque Mosca ha lasciato deteriorare la situazione a tal punto, con la situazione in Nagorno-Karabakh ormai irrimediabilmente compromessa, da avere ormai davvero poco da offrire agli armeni.

Manifestazioni e scontri a Erevan
Mentre in Azerbaigian la folla nazionalista esulta sventolando bandiere turche e russe, nella capitale armena si susseguono le manifestazioni e gli scontri, con relativi feriti e arresti. Da martedì decine di migliaia di persone, aderenti a movimenti nazionalisti o a partiti di opposizione, al grido di “vergogna” e “assassini” assediano la sede del parlamento e del governo armeni, oltre che la sede diplomatica di Mosca, chiedendo le dimissioni di Nikol Pashinyan e un intervento deciso a favore degli armeni dell’Artsakh.
Per impedire l’ingresso dei dimostranti nelle sedi istituzionali, la polizia in assetto antisommossa ha operato numerosi arresti e ha fatto uso di granate stordenti. Alcuni manifestanti impugnano le bandiere degli Stati Uniti o dell’Unione Europea, della Georgia e della Francia, riponendo false speranze in paesi che, dichiarazioni a parte, non hanno mosso un dito per bloccare l’ennesima offensiva azera.

L’UE protesta con Baku ma pensa al gas
Non sono mancate le dichiarazioni di condanna nei confronti delle mosse di Baku da parte del responsabile della politica estera dell’UE, Josep Borrell, o del Dipartimento di Stato di Washington, o da parte del governo francese. Ma nessuna misura concreta è stata fin qui varata da nessun governo occidentale per convincere il regime di Aliyev a rinunciare all’aggressione militare o alle prevedibili operazioni di pulizia etnica in Nagorno-Karabakh, suscitando la delusione del ministro degli Esteri armeno, mentre l’ambasciatore Edmon Marukyan ha accusato esplicitamente UE e Stati Uniti di essere responsabili della tragedia in corso nell’enclave armena dell’Azerbaigian.
Mentre in numerosi parlamenti europei ed in quello di Strasburgo crescono le richieste di sanzioni nei confronti di Baku, è evidente che l’UE non ha nessun interesse a vararle, anzi.
Lo scorso anno Bruxelles ha siglato un accordo con Baku per raddoppiare entro il 2027 le forniture di gas che, estratto nel Caucaso meridionale, arriva a Melendugno attraverso il TAP. La presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen si è impegnata personalmente per accaparrarsi le forniture azere e poter tagliare quindi quelle russe. Volata a Baku per siglare l’accordo nel luglio scorso, von der Leyen ha descritto l’Azerbaigian come «un partner affidabile e degno di fiducia» sorvolando sulla violazione sistematica dei diritti umani e politici da parte del regime e sul militarismo e lo sciovinismo nei confronti degli armeni.
Nell’ultimo anno in Italia la quota di gas proveniente dall’Azerbaigian è già aumentata dal 10 al 15,1%, eguagliando le importazioni dall’Algeria. Baku ha nel frattempo aumentato gli introiti delle esportazioni di idrocarburi da 20 a 35 miliardi di euro; di questi ben 16,5 provengono dall’Italia. E poi c’è tutto il capitolo degli armamenti: grazie ai crescenti introiti dell’industria petrolifera il regime di Aliyev negli ultimi anni ha fatto il pieno di armi turche e israeliane, ma anche americane ed europee (e russe). – Pagine Esteri

* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.