di Michele Giorgio*

Pagine Esteri, 19 ottobre 2023 – Gli altri abitanti di Gaza, quelli senza lavoro, li guardavano con invidia fino a un paio di settimane fa. E loro si reputavano «fortunati». Certo, andare in Israele come manovale non è quello che desidera un palestinese di Gaza che amerebbe trovare un’occupazione nella sua terra, vicino casa. Però con la disoccupazione ai livelli più alti di sempre e una famiglia da mantenere, attraversare il valico di Erez per recarsi in un cantiere a Tel Aviv o in altre città israeliane ti garantisce la sopravvivenza. Oggi quei 21mila palestinesi di Gaza in possesso del permesso di lavoro israeliano, sono tra le vittime della guerra. A migliaia sono stati, di fatto, arrestati e cacciati da Israele nelle ore successive all’attacco di Hamas il 7 ottobre e poi scaricati ai posti di blocco all’ingresso delle principali città della Cisgiordania. Sono lontani dalle loro famiglie minacciate dai raid aerei. Vivono ammassati nelle palestre e locali pubblici. E in quanto abitanti di Gaza, perciò considerati «potenziali sostenitori di Hamas», devono guardarsi dalle retate israeliane e dalla diffidenza dell’Autorità nazionale palestinese.

Ne sa qualcosa Ahmed A., 45 anni di Bani Suheila nei pressi di Khan Yunis, a sud di Gaza. «(I poliziotti israeliani) Sono arrivati nella notte tra domenica e lunedì all’alloggio che condivido con altri manovali» racconta «ci urlavano di tutto, ci colpivano con i fucili. Abbiamo preso in tutta fretta le nostre cose e in un attimo ci siamo ritrovati su di un furgone. Una volta arrivati a Qalandiya (tra Gerusalemme e Ramallah) ci hanno detto di scendere subito e di incamminarci verso il campo profughi». In quelle ore lo stesso avveniva in più punti lungo la linea verde tra Israele e Cisgiordania. L’aiuto dei palestinesi che abitano nelle aree a ridosso dei posti di blocco è stato essenziale per una prima assistenza. Poi sono intervenute le municipalità e i sindacati.

Secondo i dati in possesso tre giorni fa da Laila Ghannam, governatrice di Ramallah e al-Bireh, quasi 600 lavoratori palestinesi di Gaza si trovano a Ramallah, Hebron, Nablus e Jenin. Il numero poi è cresciuto a 2-3mila. Solo ora cominciano a trovare delle sistemazioni meno precarie. Spesso in piccoli hotel. Le forze di sicurezza israeliane dopo averli espulsi adesso li tiene sotto stretto controllo non mancando di effettuare rastrellamenti e arresti. Come è avvenuto lunedì notte a Hebron: 30 lavoratori, ospitati in un istituto professionale, sono finiti in manette. Domenica invece è stata l’Anp ad organizzare, per motivi oscuri, il «trasferimento» da Ramallah a Gerico dei manovali di Gaza. «Lo facciamo per proteggervi e a Gerico starete meglio, in locali ben attrezzati», spiegavano i poliziotti dell’Anp tra lo scetticismo dei lavoratori. Così in 300 sono scappati, preferendo stare a Ramallah da dove, pensano, sarà più facile tornare a Gaza. Quando e come però nessuno lo sa, il valico di Erez è in gran parte distrutto e non si passa mentre resta l’angoscia per le famiglie sotto i bombardamenti. Qualcuno ha appreso della morte di congiunti o dello sfollamento della propria famiglia verso il sud di Gaza.

Ieri la tv Canale 12 stimava in 4mila i lavoratori di Gaza portati in centri di detenzione israeliani. I servizi di sicurezza cercano prove di un loro coinvolgimento nel lavoro di intelligence svolto da Hamas prima dell’attacco di dieci giorni fa.

La vicenda dei manovali espulsi da Israele aggiunge un altro tassello al difficile mosaico della Cisgiordania in questi giorni dove si segue con dolore e rabbia l’attacco a Gaza. La tensione sale giorno dopo giorno. Dal 7 ottobre più di 50 palestinesi cisgiordani sono stati uccisi in quelli che l’esercito israeliano, dispiegato con migliaia di uomini sul territorio, descrive come scontri che «minacciavano la vita dei soldati». Una versione smentita dai palestinesi che parlano di militari dal «grilletto facile», che «sparano subito» e, più di tutto, accusano i coloni di aver ucciso almeno due persone, padre e figlio, nel villaggio di Qusra. La chiusura delle città palestinesi è molto rigida. A cominciare da Hebron, divisa dal 1997 in due zone, H1 controllata dall’Anp e H2 dall’esercito israeliano e dove vivono, con 25mila palestinesi, alcune centinaia di coloni legati all’estrema destra religiosa. I militari hanno chiuso i posti di blocco tra le case e quelli che conducono all’esterno. Circa mille famiglie sono sotto stretta sorveglianza e una parte di queste cercano rifugio da parenti nella H1. Issa Amro, noto attivista e coordinatore di «Gioventù contro gli insediamenti», vive nel quartiere di Tel Armida all’interno della H2. Riferisce che «l’esercito consente alle persone di lasciare le proprie case solo per un’ora ogni 48 ore nell’area tra Bab al-Zawiya fino alla Tomba dei Patriarchi. «Gli abitanti – ci ha detto – non possono andare al lavoro, gli studenti alle scuole e gli ammalati dal medico. C’è aperto solo un posto di controllo e l’attesa in fila può richiedere più di un’ora e mezza».

* questo articolo è stato pubblicato in origine dal quotidiano IL MANIFESTO