di Mira al Hussein *- Carnegieendowment.org

(nella foto Dubai, di Andrej Bobrovsky- wikimedia.commons)

Negli ultimi dieci anni, i regimi del Golfo Arabo hanno lavorato per emarginare la causa palestinese e aprire la strada alla normalizzazione con Israele. Anche i libri di testo scolastici sono stati ripuliti da qualsiasi riferimento religioso o politico al conflitto in corso, interpretato come una mera disputa territoriale tra palestinesi e israeliani. Ma se non altro, la guerra in corso contro Gaza ha rivelato la perdurante rilevanza della causa palestinese per la popolazione del Golfo.

La normalizzazione è arrivata alla fine di un decennio difficile. Le rivolte arabe, anche per i cittadini del Golfo più apolitici, sono state dirompenti e i governi della regione hanno risposte ad esse con una nuova ondata di repressione. Questo periodo ha visto la contrazione dello spazio pubblico e l’offuscamento delle linee convenzionali del dissenso, creando un ambiente di paura e sfiducia. L’idea che un cittadino del Golfo potesse essere punito retroattivamente in base a leggi sulla criminalità informatica arbitrarie e formulate in modo vago ha ulteriormente esacerbato le ansie, portando il dibattito pubblico nella clandestinità.

La necessità per i regimi del Golfo di controllare l’opinione popolare è diventata una questione di sicurezza nazionale che, a sua volta, ha gonfiato le casse delle aziende informatiche israeliane. I governi hanno utilizzato lo spyware israeliano (Pegasus, ndt) per sorvegliare i cittadini  e criminalizzare il loro attivismo, persino la richiesta del diritto di guidare della donna. Anche i regimi del Golfo si sono ispirati al sistema israeliano e hanno ampliato l’uso della detenzione amministrativa (senza processo, ndt), utilizzando il pretesto del terrorismo per incarcerare i prigionieri di coscienza a tempo indeterminato. Queste misure hanno portato la repressione israeliana in casa, facendo sembrare la lotta palestinese meno astratta e distante ai cittadini del Golfo, e alimentando nuove rivendicazioni interne.

Nonostante le strategie di repressione condivise, gli Stati del Golfo hanno descritto il loro riavvicinamento a Israele come un modo per promuovere la pace regionale e la tolleranza religiosa. Nel marzo 2023, quando gli Emirati Arabi Uniti inaugurarono la “Casa della Famiglia Abramitica” come strumento interreligioso per la convivenza, i coloni israeliani si scatenavano contro i palestinesi nella Cisgiordania occupata. La violenza dei coloni contro i palestinesi si è intensificata proprio dopo la firma degli Accordi di Abramo (2020). Queste nette contraddizioni – mentre i regimi del Golfo rimangono in silenzio di fronte alla continua violenza israeliana – non sono sfuggite all’attenzione dei cittadini del Golfo e hanno ucciso il debole appetito per la pace.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu evoca violente storie bibliche per legittimare la sua guerra contro Gaza, ma non suscita alcuna condanna da parte dei leader mondiali. In questo contesto, i cittadini arabi del Golfo potrebbero essere costretti a chiedersi perché dovrebbero seguire l’esempio dei propri governi e secolarizzare il proprio linguaggio.

Ciò a cui i regimi del Golfo dovrebbero prestare attenzione, quindi, è l’appello di massa della resistenza palestinese che viene espresso attraverso un lessico religioso familiare. Il suo pubblico del Golfo comprende una generazione di videogiocatori, che sono stati anche i primi a sottoporsi alla coscrizione militare obbligatoria. Il giovane cittadino del Golfo, esaltato dal discorso statale sulla mascolinità e l’abilità militare, è ipnotizzato dai video di combattenti di Hamas che sferrano duri colpi alle forze israeliane. Il fatto che Hamas sia riuscito a negoziare uno scambio di ostaggi, nonostante l’alto numero di vittime a Gaza, avrà un impatto sui cittadini del Golfo.

Poiché la guerra a Gaza è destinata a continuare nei prossimi mesi, il mantenimento della normalizzazione o l’espansione di nuovi legami con Israele, di fronte alla sua profonda impopolarità interna, rischia di diventare un punto di svolta. Dato il potenziale di una rinascita della militanza di ispirazione religiosa in tutta la regione, spetta ai regimi del Golfo andare oltre la repressione e il paradigma della sicurezza come mezzo per garantire la propria sopravvivenza. Nelle parole dell’accademico kuwaitiano Talal Alkhader, questo è un momento opportuno per una riconciliazione tra Stato e società nel Golfo.

*Mira Al Hussein è una sociologa e commentatrice del Golfo. È ricercatrice presso l’Alwaleed bin Talal Centre, Università di Edimburgo.