di Michele Giorgio* –
Pagine Esteri, 10 settembre 2024. Osama Musleh, ha cercato di dare alla sua famiglia una vita dignitosa. Manovale, pronto ad accettare qualsiasi lavoro, qualche anno fa aveva finalmente costruito la sua casa nel villaggio di Kufr Dan, alle porte di Jenin. «Non abbiamo mai fatto del male a nessuno e grazie a Dio siamo nella nostra casa, nella nostra terra. Martedì in un secondo è cambiato tutto. Mia figlia Lujain di 16 anni è stata uccisa da un cecchino israeliano, perché?» ripete l’uomo quasi cercando una risposta dalle persone presenti nella stanza. «Lujain non è salita sul tetto, non ha lanciato una pietra e non aveva un’arma». E aggiunge: «L’unica cosa che ha fatto è stato guardare dalla finestra e un soldato le ha sparato alla fronte. È morta sul colpo». Un vicino di casa, incuriosito dalla presenza di un giornalista straniero, entra nella stanza. Scuote la testa mentre Osama Musleh sottolinea lo shock subito dalle quattro sorelle e dal fratello della ragazza uccisa. «Non riescono a dormire e non escono di casa, temono di essere uccisi in qualsiasi momento anche se i soldati israeliani non ci sono più, almeno per adesso, ho dovuto chiamare il medico più volte», prosegue servendoci il caffè amaro del lutto.
KUFR DAN è stato uno dei centri intorno a Jenin oggetto dell’offensiva «Campi Estivi» lanciata a fine agosto dall’esercito israeliano nel nord della Cisgiordania. «Per colpire le organizzazioni terroristiche palestinesi», ha detto il ministro della Difesa Yoav Gallant. Operazione che ora sarebbe in «pausa» dopo aver ucciso quasi 40 palestinesi tra cui diversi civili come Lujain Mosleh. Il giorno in cui la ragazza fu colpita a morte, le camionette blindate dell’esercito circondarono una abitazione con «due sospetti». Ci fu uno scontro a fuoco per circa un’ora. Il portavoce dell’esercito ha spiegato la morte di Lujain con «il fuoco aperto da un tiratore scelto verso un sospetto» per proteggere le truppe. «Non si può sparare a chiunque apra una finestra a casa sua, mia figlia ha solo dato uno sguardo fuori. Mi chiedo come quel soldato possa continuare la sua vita dopo aver ucciso una innocente…ma agli israeliani non importa nulla di noi». Le stesse parole che a Qaryout, ad alcune decine di chilometri di distanza, ripete Amjad Laboum, il padre di Lana, 13 anni, uccisa in casa venerdì da un proiettile sparato mentre ad alcune decine di metri gruppi di coloni israeliani, alla presenza dell’esercito, lanciavano pietre alle case e incendiavano i campi coltivati prima di scontrarsi con gli abitanti del villaggio. L’esercito si è limitato a comunicare di aver aperto una indagine. In quelle stesse ore a Beita spari dei soldati uccidevano l’attivista Aysenur Ezgi Eygi.
A JENIN intanto il comune, gli abitanti e volontari giunti anche da centri vicini con decine di ruspe sono stati in grado di rimuovere rapidamente una buona porzione delle macerie delle strade sventrate dal passaggio dei bulldozer militari israeliani. E hanno ripristinato l’elettricità in gran parte della città e del campo profughi. «Gli israeliani hanno sistematicamente spaccato l’asfalto e distrutto tutto ciò che potevano», ci dice Atef Abu Yafa, un impiegato comunale che abita non lontano dal campo profughi, «così facendo hanno distrutto chilometri e chilometri della rete fognaria, le acque nere hanno allagato le strade esponendo la popolazione al pericolo di malattie». Uno dei problemi principali sono le famiglie sfollate. «Ci sono dozzine di case distrutte o danneggiate nel campo, a Damj e altri quartieri orientali di Jenin. Le famiglie che le abitano si sono spostate da amici e parenti o in alloggi di fortuna. Non sarà facile trovare per loro una soluzione in tempi rapidi», aggiunge Abu Yafa. A pochi metri da lui degli operai lavorano sotto un sole cocente per riparare un tratto delle fognature. Israele ha spiegato la distruzione delle strade con la ricerca di «ordigni esplosivi» nascosti sotto l’asfalto. «È assurdo quanto affermano, in queste strade camminano gli abitanti e le procedono le nostre auto, non si può pensare che ci siano degli esplosivi».
Fermiamo un paio di giovani. Sono sospettosi, non si fidano dei giornalisti stranieri. Poi accettano di rispondere a qualche domanda. «Se gli israeliani credono di poter piegare la nostra volontà distruggendo e ammazzando i nostri shebab (giovani combattenti, ndr) si sbagliano. Non ci arrendiamo», ci dice uno di loro. «Non importa quanti combattenti ammazzeranno, per uno che muore altri dieci sono pronti a prendere il suo posto», aggiunge l’altro. A Jenin sono stati uccisi 22 degli oltre 30 palestinesi colpiti dall’operazione israeliana, anche con l’uso massiccio di droni.
A GAZA non si arresta la strage quotidiana. Gli attacchi israeliani hanno ucciso almeno 61 persone nell’arco di 48 ore, hanno riferito fonti del ministero della Sanità. Un raid aereo sul complesso scolastico di Halima al-Saadiyya, dove hanno trovato un rifugio migliaia di sfollati del campo profughi di Jabalia, ha ucciso almeno otto persone. Israele sostiene di aver colpito nella scuola un «centro di comando di Hamas». Centrata da una bomba anche un’altra scuola, la Amr Ibn Alaas: quattro i morti. Altre cinque persone sono state uccise in un attacco contro un’abitazione a Gaza city.
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*Questo articolo è stato pubblicato in origine dal quotidiano Il Manifesto