di Giovanna Cavallo e Souhayla Saab 

Nella provincia meridionale siriana di Suwayda, la crisi non si misura più con le statistiche, ma con le vite infrante e le città svuotate. Qui, il disastro non è solo umanitario: è politico, identitario, esistenziale.

Dal 13 luglio 2025, la provincia è sottoposta a un assedio soffocante visto che la principale arteria che collega Suwayda alla capitale Damasco è stata chiusa da milizie beduine e connesse al Governo. Resta aperto un unico corridoio umanitario attraverso Dara’a e Busra al-Sham — un passaggio precario e controllato.  Il poco che arriva, lo fa grazie alla diaspora drusa e a organizzazioni civiche, che in coordinamento con la Mezzaluna Rossa cercano di fornire farina, carburante e medicinali.

Un aggiornamento recente da parte di fonti locali, racconta di diffuse interruzioni delle linee di comunicazione e della rete Internet terrestre, senza alcuna spiegazione ufficiale.  La crisi delle comunicazioni si somma a un assedio che ha isolato centinaia di migliaia di persone, tagliando i collegamenti stradali e bloccando l’accesso a beni essenziali: acqua, pane, carburante, cure mediche. Moatasem Al-Aflaq, attivista umanitario dell’ospedale di Suwayda riferisce che il team di medici, infermieri e persino i pazienti (oltre 800 persone) sopravvivono da due giorni a base di biscotti a causa della mancanza di generi alimentari di prima necessità.

Le cifre raccontano l’entità della tragedia. Più di 170.000 sfollati sono arrivati nella città di Suwayda da aree rurali completamente devastate. Oltre 32 villaggi sono stati bruciati, saccheggiati e resi inabitabili. Solo nella città di Shahba, nel nord della provincia, sono stati accolti oltre 40.000 sfollati, secondo quanto riportato dalla pagina Sweida24. E tutto questo accade in condizioni di estrema carenza di aiuti e di rifornimenti umanitari, che non coprono nemmeno il 5% del fabbisogno provinciale.

Le organizzazioni umanitarie denunciano aiuti insufficienti. Stephan Sakalian, capo della missione della Croce Rossa Internazionale, ha dichiarato: “Manca di tutto: acqua, cibo, medicine. E il nostro aiuto è ancora insuffieciente.” Per molti abitanti, queste forniture restano gocce nel deserto mentre il valico è soggetto sempre più frequentemente a chiusure arbitrarie e insensate. Persino le banche hanno spostato il pagamento dei salari fuori dalla provincia, come se Suwayda potesse essere cancellata, dimenticata, come una vecchia fotografia sbiadita.

La sfida più drammatica è l’acqua. Il 70% dell’approvvigionamento idrico di Suwayda dipende dal villaggio di Al-Tha’ala, oggi sotto il controllo di forze governative e beduine dove i pozzi sono stati definitivamente messi fuori servizio. In alcuni villaggi, i corpi delle vittime restano insepolti, esposti all’aperto, per l’impossibilità di recuperarli. Questo aumenta il rischio di epidemie in una regione dove manca l’acqua potabile, le infrastrutture sono distrutte e l’assistenza sanitaria è paralizzata. L’assedio non uccide solo con le armi, ma con la fame, la sete, la malattia.

Una tregua mai nata

Il cessate il fuoco del 20 luglio era stato firmato dopo una settimana di massacri che avevano causato oltre 1.500 morti e più di 250 dispersi, in maggioranza drusi. Ma la tregua è durata pochi giorni. Nelle ultime settimane, sono ricominciati i bombardamenti con mortai e armi pesanti sui villaggi di Atil, Ara e Ari.

Mentre il Ministero della Giustizia ha annunciato l’istituzione di una commissione di inchiesta, nuove esplosioni di violenza si sono verificate nella notte tra sabato e domenica, mettendo a dura prova il cessate il fuoco. Scontri sono scoppiati tra le forze affiliate al governo e i gruppi armati drusi, con almeno nove morti registrati nelle ultime 24 ore secondo l’Osservatorio per I Diritti Umani Siriano.

“In nove mesi, il governo di transizione è riuscito a ottenere ciò che neanche il regime di Bashar al-Assad aveva realizzato, dividere le componenti del Paese, alimentando odio settario, fratture etniche e sfiducia tra le minoranze”. Cosi la popolazione scesa in piazza venerdi scorso ha denunciato. In piazza i cartelli recitano “Sicurezza, pane, cure: non sono privilegi. Sono diritti umani.”

I sindaci e i consigli locali hanno denunciato il governo per crimini di guerra e genocidio. Un atto di coraggio raro, che testimonia una società civile viva, che non si piega. Il buio è spesso più profondo prima dell’alba. E in quell’oscurità, Suwayda tiene accesa una fiammella fragile ma testarda: la speranza. Sta a noi decidere se alimentarla o lasciarla spegnere. Sta alla comunità internazionale scegliere se tacere o agire. Perché il silenzio, oggi, è già complicità.