Pagine Esteri – Dopo quasi quarant’anni di guerre, Armenia e Azerbaigian hanno apparentemente siglato nei giorni scorsi uno storico accordo di pace, frutto di anni di mediazioni e pressioni internazionali.
Venerdì scorso i presidenti dei due paesi, l’armeno Nikol Pashinyan e l’azero Ilham Aliyev, hanno firmato a Washington, sotto lo sguardo più che compiaciuto di Donald Trump, un Memorandum diretto ad istituire un Gruppo di Lavoro Strategico. A sua volta quest’ultimo dovrà redigere una Carta di Partenariato Strategico che cementerà le relazioni tra Baku e gli Stati Uniti, che non solo si faranno garanti della pace tra i due storici nemici ma incassano un importante ruolo di supervisione e gestione del “corridoio di Zangezur”, una via di transito che collegherà l’Azerbaigian alla sua exclave della Repubblica autonoma del Nakhchivan, passando nel sud del territorio armeno per più di 40 km.
Attualmente il passaggio tra il Nakhchivan e l’Azerbaigian (e viceversa) è possibile solo attraverso il territorio iraniano o quello georgiano, visto che le frontiere tra Armenia e Azerbaigian sono chiuse.
La realizzazione del corridoio, richiesta storica e pressante di Baku dopo le ripetute vittorie degli ultimi anni sulla sempre più isolata e debole Armenia, comporterà una linea ferroviaria, un’autostrada, un oleodotto, un gasdotto e una rete in fibra ottica.
Secondo Foreign Policy, formalmente il corridoio sarà sotto la giurisdizione armena, ma Erevan dovrà affittare per “99 anni” le aree interessate ad una società privata statunitense che controllerà la costruzione e la gestione delle infrastrutture previste.
Si tratta di una tripla vittoria dell’Azerbaigian, che non solo otterrà un collegamento diretto con una parte finora isolata del proprio territorio che sorge ad ovest dell’Armenia, ma anche una proiezione economica e logistica diretta verso la Turchia e il Mediterraneo, e la possibilità di bypassare sia la Russia sia l’Iran, rafforzando il proprio ruolo di hub energetico globale.
Da parte sua la Turchia, da tempo “fratello maggiore” della ex repubblica sovietica turcofona, otterrà una via privilegiata ed esclusiva per proiettare commerci ed influenza geopolitica e militare verso l’Asia Centrale.
Esulta anche Donald Trump, che oltre a confermare il suo sempre più ricercato e ostentato ruolo di “paciere globale”, ottiene un ritorno dell’influenza statunitense in un’area del globo dove Washington aveva avuto poco da fare negli ultimi anni.
Il corridoio nell’Armenia meridionale sarà battezzato con l’altisonante appellativo di “Trump Route for International Peace and Prosperity” (TRIPP), cioè “Rotta Trump per la Pace e la Prosperità Internazionale”. Sarà Washington – che da una parte corteggia Erevan insieme alla Francia dopo che il governo Pashinyan si è distanziato dalla Russia, ma che dall’altra gode di ottimi rapporti con l’Azerbaigian, come del resto l’intera Unione Europea – a dover garantire la sovranità armena sul territorio attraversato dal corridoio e al tempo stesso la piena fruizione di quest’ultimo da parte di Baku. Dovrebbero essere gli Stati Uniti a proteggere Erevan nel caso in cui Aliyev non dovesse accontentarsi di utilizzare la regione di Syunik nel sud dell’Armenia e tentasse l’annessione di quello che a Baku tutti chiamano, ormai da tempo, “Azerbaigian occidentale”. Ma il fatto che contestualmente all’intesa Trump abbia sbloccato la fornitura di armi all’Azerbaigian non lascia ben sperare.
Pashinyan ha cercato di presentare l’accordo come un successo, affermando che la pace e il cedimento alle pretese azere attireranno nuovi investimenti internazionali e apriranno comunque nuove opportunità economiche per la piccola repubblica, da tempo in crisi permanente e alle prese con un gran numero di sfollati provenienti dall’ex Repubblica dell’Artsakh, l’enclave armena in territorio azero spazzata via dall’ultima offensiva militare di Baku nel settembre del 2023.
Ma le voci contrarie a quella che molti considerano l’ennesima capitolazione di Pashinyan sono numerose negli ambienti nazionalisti e di opposizione, oltre che nella numerosa diaspora armena nel mondo.
Chi ha mostrato immediatamente la propria contrarietà all’accordo a tre è stato l’Iran, che non solo verrà tagliato completamente fuori dalle rotte commerciali dell’area interessata a causa del corridoio “Baku-Istanbul”, ma che guarda con preoccupazione alla ritrovata egemonia statunitense nel quadrante caucasico meridionale.
Non è ancora chiaro se il controllo della rotta logistico-commerciale da parte statunitense verrà gestito con l’invio di truppe regolari o, più probabilmente, attraverso qualche compagnia di sicurezza privata, ma la presenza di Washington a ridosso dei suoi confini, sommata alla sempre più stretta alleanza tra l’Azerbaigian e Israele, impensieriscono non poco Teheran.
Poche ore dopo la firma dell’intesa alcuni esponenti dell’establishment iraniano hanno addirittura minacciato il blocco del corridoio, definendolo una minaccia alla propria sicurezza nazionale.
La Russia, formalmente, ha accolto con favore l’intesa di Washington. «Sosteniamo costantemente tutti gli sforzi che contribuiscono al raggiungimento di questo obiettivo chiave per la sicurezza regionale. Ci auguriamo che questo passo contribuisca a far progredire l’agenda di pace», ha dichiarato la portavoce del Ministero degli Esteri di Mosca, Maria Zakharova.
Ma la Federazione Russa dall’intesa ha più da perdere che da guadagnare. Il corridoio bypasserà il territorio russo e indebolirà i traffici commerciali con l’Iran, rafforzando il regime azero che dopo aver approfittato dell’attiva collaborazione di Mosca – fondamentale, insieme al sostegno turco e israeliano, per avere la meglio sull’Armenia – negli ultimi anni ha assunto un atteggiamento ostile nei confronti della Russia, preferendo sviluppare relazioni privilegiate con l’occidente, sempre più dipendente dal gas di Baku.
Per non parlare del ritorno dell’egemonia statunitense in Armenia, paese che si è sentito abbandonato da Mosca e che ha lasciato le alleanze economiche e militari regionali guidate proprio dalla Russia, che pure nel paese mantiene una importante presenza militare.
Dopo la vittoria del fronte filoccidentale guidato da Pashinyan la dirigenza russa ha deciso alcuni anni fa di mollare l’Armenia al proprio destino, ritenendola poco interessante e poco appetibile e preferendo l’Azerbaigian che nel frattempo si era trasformato in una potenza regionale, economicamente e militarmente parlando, e in uno dei maggiori produttori mondiali di idrocarburi.
Così facendo però Mosca ha reso le cose ancora più facili al governo armeno che ha cercato un rapporto privilegiato con Washington e la Nato – che comunque rappresentano un baluardo assai poco convincente di fronte alle crescenti pretese azere – provocando un ulteriore indebolimento dei legami tra Erevan e Russia.
Il risultato è che Mosca si ritrova ora con gli Stati Uniti che rientrano in gioco nel suo “cortile di casa” caucasico, con un Azerbaigian sempre più potente e pretenzioso e con Israele e Washington che potrebbero utilizzare il nuovo scenario per isolare ulteriormente – se non per aggredire di nuovo militarmente – l’Iran, il principale alleato della Russia in Medio Oriente. Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e saggista, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive anche di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con Pagine Esteri, il Manifesto, El Salto Diario e Berria