di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 28 ottobre 2021 – Si moltiplicano le condanne internazionali al colpo di stato militare in Sudan che, con ogni probabilità, ha interrotto quella “transizione verso la democrazia” che il paese avrebbe avviato nel 2019 dopo la sollevazione popolare e la rimozione dal potere del presidente Omar Al Bashir. Eppure al di là delle prese di posizione di diversi governi stranieri contro il golpe e delle dichiarazioni di facciata, non tutti sono sinceramente interessati alla libertà e alla democrazia in Sudan. Gli interessi dei singoli Stati, amici e nemici di Khartoum, potrebbero presto spegnere lo sdegno per la presa del potere da parte del generale Abdel Fattah al Burhan e promuovere una linea più “pragmatica” nei confronti dei golpisti sudanesi.
Non c’è stato, ad esempio, ancora alcun commento ufficiale israeliano al colpo di stato. Dietro le quinte, comunque, i vertici politici e militari israeliani seguono con attenzione gli sviluppi da un paese arabo con il quale lo Stato ebraico, appena un anno fa, ha normalizzato le relazioni. Il golpe è giunto mentre Tel Aviv intensificava gli sforzi per stringere legami più forti con Khartum. Il Sudan è un paese strategico per gli interessi israeliani come Emirati e Bahrain. Se questi due paesi hanno portato Israele sulle rive del Golfo, proprio di fronte al nemico iraniano, il Sudan è centrale per il controllo dell’area tra il Mar Rosso e l’Oceano Indiano. Le ultime settimane hanno visto ripetuti contatti tra i funzionari sudanesi e le controparti israeliane. Malgrado ciò, Khartoum questo mese ha contestato l’assegnazione a Israele dello status di osservatore all’Unione Africana. In apparenza Burhan è favorevole a proseguire la normalizzazione con Israele. I rapporti con lo Stato ebraico sono una delle chiavi che il Sudan ha a disposizione per garantirsi gli aiuti statunitensi e internazionali. Al Burhan lo sa e lo scorso gennaio ha incontrato a Khartoum il ministro israeliani dell’intelligence, Eli Cohen, dichiarando il suo caloroso appoggio all’avvio di rapporti pieni con Tel Aviv.
I media israeliani riferiscono di un cauto ottimismo ai vertici politici e militari. La previsione è che Khartoum non annullerà la firma dell’Accordo di Abramo che nel 2020 ha permesso allo Stato ebraico di avviare rapporti con quattro Stati arabi: Emirati, Bahrain, Marocco e, appunto, Sudan. Non è difficile immaginare che in cambio del proseguimento della normalizzazione e delle intese sulla sicurezza, Israele si proclamerà pronto a portare avanti, anche con Burhan al potere, i progetti agricoli e tecnologici con il Sudan decisi nei mesi scorsi. Il rischio da evitare, affermano gli analisti israeliani, è che i militari sudanesi congelino la ratifica dell’Accordo di Abramo poiché la normalizzazione non ha portato risultati tangibili al Sudan che pure in politica estera si è allontanato dall’Iran per abbracciare Usa, Israele e i loro alleati arabi. L’economia sudanese è stata particolarmente colpita dal Covid e si è contratta del 3,6% nel 2020 e il Fondo monetario internazionale prevede che crescerà quest’anno dello 0,9% e del 3,5% nel 2022. Livelli che non permetteranno al Sudan di creare lavoro sufficiente per i giovani e di contenere la povertà.
Anche gli Usa, mettendo da parte le dichiarazioni fatte in questi ultimi giorni, forse adotteranno una linea più morbida verso i golpisti. Dopo aver portato Khartoum nella sua sfera d’influenza, con la promessa di ingenti aiuti finanziari e di rimuovere il paese africano dalla lista degli sponsor del terrorismo, Washington teme che l’isolamento internazionale spinga Burhan tra le braccia di Pechino. La Cina è stata per anni uno dei partner economici più importanti di Omar al Bashir. Quando il Sudan ha accumulato 10 miliardi di dollari di debito, Pechino nel 2018 l’ha cancellato. Quindi, è scontato, alla Cina si rivolgeranno i golpisti se il Sudan sarà colpito da sanzioni economiche. E anche la Russia non starà a guardare.
Sostegni a Burhan arriveranno quasi certamente dal Cairo interessato affinché il golpe sudanese diventi una replica degli eventi che hanno portato alla dittatura di Abdel Fattah al Sisi. L’Egitto ha stretto i rapporti con Khartoum dopo la caduta nel 2019 di Al Bashir alleato dei Fratelli musulmani nemici del regime el Sisi. E ha investito non poche risorse nell’assistenza alle forze armate di Khartoum. Si aspetta perciò che il generale Al Burhan ricambi il favore adottando una posizione più rigida e più fedele a quella del Cairo nella pericolosa controversia con l’Etiopia che si prepara, nei prossimi mesi, a proseguire il riempimento della diga Gerd sul Nilo. Un progetto che Addis Abeba ritiene fondamentale per lo sviluppo dell’economia etiope e che il Cairo invece considera una minaccia alla sua esistenza perché ridurrà nei prossimi anni la quota di acqua destinata all’Egitto. Sino ad oggi Khartoum ha appoggiato solo fino ad un certo punto le ragioni dei «fratelli egiziani» per decisione, si dice, del premier deposto Abdalla Hamdok contrario a una rottura traumatica con l’Etiopia. Adesso con il potere tutto nelle mani di Abdel Fattah al Burhan le cose potrebbero prendere un’altra piega. Pagine Esteri