di Valeria Cagnazzo* –
Pagine Esteri, 23 dicembre 2021 – Li chiamano “orpailleurs”, ancora nella lingua coloniale, i cercatori d’oro “artigianali” in Burkina Faso. Con oltre 700.000 minatori e almeno altri 2 milioni di burkinabé impiegati in servizi che orbitano intorno al settore, l’estrazione mineraria è diventata la prima fonte di ricchezza del Paese. Negli ultimi quindici anni, infatti, l’oro ha sostituito il cotone nel mercato delle esportazioni e il “Paese degli uomini integri”, questo il significato del nome Burkina Faso, è attualmente il quarto produttore africano del minerale. Un settore in rapidissima crescita e fondamentale per una così vasta fascia della popolazione, che conta 20 milioni di abitanti, in un Paese al 179° posto nella classifica mondiale per PIL pro capite. Il 13.13% del PIL del 2019 si è basato proprio sui guadagni derivanti dalle diciassette miniere industriali presenti in Burkina Faso. Oltre a queste, però, si moltiplicano sul territorio soprattutto i giacimenti “artigianali”, controllati da gruppi privati e organizzazioni armate, i cui proventi non confluiscono nelle casse dello Stato e la cui presenza, pur contribuendo a fornire lavoro alla popolazione, rappresenta un grave rischio per la sicurezza e il rispetto dei diritti umani.
Si stima che l’estrazione mineraria artigianale nel Sahel abbia un valore al dettaglio compreso tra i 350 milioni di dollari e un miliardo per Paese – la maggior parte derivanti da contrabbando illegale all’estero, verso Paesi europei, come la Svizzera, o verso Dubai. I guadagni dell’oro trafficato illegalmente nella regione saheliana sarebbero addirittura di gran lunga superiori rispetto a quelli derivanti dal traffico di droga e di esseri umani. Una ricchezza sotterranea, spesso in regioni periferiche, che gli Stati non riescono a controllare a causa della scarsità di risorse e di forze armate poco numerose e poco equipaggiate: i giacimenti si sono trasformati così in pericolosi epicentri di scontri tra minatori e popolazione locale, tra società private e banditi, tra gruppi armati terroristici ed esercito. Un dramma che riguarda tutto il Sahel (ne avevamo parlato qui) e che in Burkina Faso, in particolare, ha assunto un’entità e delle caratteristiche peculiari.
Quando nel 2014, dopo ventisette anni di governo semi-autoritario, il Presidente Blaise Compaoré rassegnò le sue dimissioni e si rifugiò in Costa d’Avorio, il nuovo governo burkinabé annunciò il suo impegno a liberare il settore dell’oro dal sistema clientelare al quale l’ex “dittatore” l’aveva sottoposto. La politica adottata dall’ex Presidente nei confronti delle miniere del suo Paese, di fatto, se da una parte aveva certamente favorito la sua rete di clienti, aveva dall’altro lato temporaneamente colmato un vuoto statale che nelle regioni ricche d’oro lontane dalla capitale equivaleva a un rischio di terrorismo e di anarchia, come ben documentato da Luca Raineri, esperto di sicurezza in Africa della Scuola Sant’Anna di Pisa. Membri del suo partito, del governo e della sua stessa famiglia ottennero sotto Compaoré permessi di estrazione mineraria in regioni dalle risorse ricchissime ma lontane dall’orbita di Ouagadougou, spesso più influenzate da capi locali e da gruppi armati o anarchici che dalla capitale. Il sistema di corruzione con cui fu gestita l’estrazione mineraria “artigianale” permise a Compaoré non soltanto di ottenere sostegno politico e favori economici, ma anche di estendere il controllo statale nelle aree più remote del Paese, per quanto attraverso società private e le loro forze di polizia autonome. Alla caduta del suo governo, anche molti dei suoi ricchi clienti furono costretti ad abbandonare i loro imperi d’oro. Proprio nel sistema di Compaoré, tuttavia, nacquero i germi di una tensione e di una criminalizzazione sociale che sarebbero esplosi poco dopo proprio intorno ai giacimenti che si era illuso di controllare. Gli estrattori privati favoriti dall’ex premier, infatti, impiegarono manodopera sottopagata, la sfruttarono, e in molti casi espulsero addirittura la popolazione locale dai siti di estrazione per fare spazio alle loro attività: ciò non solo produsse un malcontento che avrebbe poi contribuito a far sollevare le masse contro il “dittatore”, ma portò anche gli abitanti di quelle regioni a rivolgersi ai gruppi armati locali, ai banditi, ai piccoli capi tribali, per essere tutelati.
Nel 2014, il vuoto improvviso dello Stato in queste aree ebbe un effetto immediato e inevitabile: le tensioni si esacerbarono in un “tutti contro tutti”. Si aprì la corsa all’oro per le società private di tutto il mondo, per i terroristi di Al Qaeda e dello Stato Islamico del Sahara e per i piccoli gruppi di banditi locali. Il governo rivelò presto la sua totale inadeguatezza nel garantire l’ordine e la sicurezza della popolazione rurale. I giacimenti d’oro erano alla mercé di tutti: ad accaparrarseli, le società più scaltre nell’ottenere concessioni da Ouagadougou o i gruppi più esperti nell’uso delle armi. In una parola, il territorio si trova da allora in mano a quella che Raineri definisce “imprenditoria violenta”. I tentativi maldestri del governo di limitarne il potere, chiudendo di tanto in tanto alcuni siti estrattivi, non hanno fatto che peggiorare la situazione: i proprietari “artigianali” si sono presentati alla popolazione come gli unici garanti dei loro posti di lavoro e spesso hanno in breve tempo riaperto i siti di estrazione in maniera illegale. Anche per i jihadisti, naturalmente, la disponibilità delle miniere ha rappresentato una fortuna dalla quale attingere per l’acquisto di armi e non solo.
Secondo un’inchiesta pubblicata da Reuters nel 2020, “per gli islamisti, le miniere sono sia un nascondiglio che un tesoro di risorse con cui reclutare nuovi membri e acquistare armi, esplosivi e detonatori con cui mettere in scena gli attacchi che estendono il loro potere”. Con 24 attacchi ai siti di estrazione, i jihadisti (dello Stato Islamico del Sahara, di Al Qaeda e di altre organizzazioni minori) avrebbero incassato in un anno oltre 35 milioni di dollari. Non solo assalti alle miniere, però: i terroristi sono impegnati anche in aggressioni ai convogli che trasportano l’oro dentro e fuori dai confini del Paese, nella tassazione illegale sui trasporti, oltre che nell’estrazione diretta mediante manodopera del posto e nel contrabbando illegale del minerale.
Era la notte del 5 giugno del 2021 quando tre automobili e trenta motociclette fecero irruzione a Solhan, nel nord del Burkina Faso. La mattina dopo, la popolazione si risvegliò piangendo i suoi 160 morti (Pagine Esteri lo aveva raccontato qui): i terroristi avevano prima attaccato la miniera “artigianale” vicina al villaggio, facendo strage dei lavoratori, e si erano poi riversati nel paese, dando fuoco alle case e al mercato. Un attacco di proporzioni immani, il più sanguinoso dal 2015. “Hanno iniziato a uccidere chiunque incontrassero”, dichiarò ad Al Jazeera Fatimata Lankoande, un’anziana del luogo, risvegliata in piena notte dalle urla, “E’ stato il momento più difficile che abbia mai vissuto durante la mia intera vita”. Un’aggressione che provocò oltre 3.000 sfollati.
Tre mesi dopo, il 12 settembre, i jihadisti uccisero sei militari burkinabé e fecero sette feriti in un attacco a un convoglio di veicoli sulla strada tra Sakoani e Matiacoali. I soldati stavano scortando camion di carburante vuoti appartenenti alla compagnia Endeavour Mining. I veicoli si stavano allontanando da una delle miniere aurifere di proprietà del gruppo privato, a Bougou, quando un ordigno esplose vicino agli pneumatici. Subito dopo ebbe inizio la sparatoria. L’aggressione non fu ufficialmente rivendicata né dallo Stato Islamico del Sahara né da Al Qaeda. Quanto all’Endeavour Mining, si tratta di una multinazionale mineraria inglese con quotazioni anche canadesi e statunitensi e con quartier generale sulle isole Cayman che possiede miniere in Burkina Faso, in Mali e in Costa d’Avorio.
Per far fronte alla minaccia terroristica, le compagnie private come l’Endeavour Mining hanno iniziato a trasportare il loro personale in elicottero fino alle miniere, per evitare il pericolo di attentati sulla strada. Una misura che, tuttavia, non sembra sufficiente a garantire l’incolumità degli impiegati e dei membri dell’esercito inviati a proteggere i lavoratori delle multinazionali straniere nel Paese.
Neanche il dispiegamento di truppe internazionali, soprattutto quelle dell’ex colonia francese, sembra poter niente contro la crescente presenza jihadista. Negli ultimi mesi, la popolazione è scesa nelle strade proprio contro l’inutile presenza delle forze straniere nel Paese e in virtù di una nuova presa di coscienza: finché ci sarà un vuoto statale, o meglio ormai un abisso, in quasi due terzi del territorio, la violenza jihadista continuerà a crescere e ad avere la meglio sui civili. I burkinabé chiedono a gran voce un governo forte, che prenda in mano il Paese, anche con le sue miniere e tutti i problemi e le ricchezze che ne derivano. La questione dell’oro, infatti, con i profitti che produce, non può considerarsi collaterale al problema del jihadismo e dell’instabilità politica. Tutt’altro, è proprio sulla via dell’oro che i gruppi jihadisti si arricchiscono e rafforzano le loro aree di influenza. Mediante gli attacchi sanguinosi che arrivano talvolta agli onori della cronaca o attraverso il controllo diretto dei siti di estrazione e della popolazione locale. La risposta contro di loro non potrà essere quella delle aziende private di trasportare gli impiegati in elicottero né del governo della capitale di continuare a rilasciare nuove concessioni alle multinazionali. Stanno scendendo in strada i burkinabé, reclamano le dimissioni del Presidente della Repubblica e piangono le oltre 2.000 di vittime del terrorismo nel loro Paese, ma è anche con una ricchezza sotterranea pericolosa che sarà necessario fare i conti: finché il governo non riprenderà il controllo dei suoi giacimenti d’oro, difficilmente riuscirà a riprendere il controllo del Burkina Faso.
Fonti:
https://www.iai.it/sites/default/files/raineri.pdf
https://www.voanews.com/a/gold-mining-in-burkina-faso-becomes-increasingly-dangerous/6306146.html
_________________________________
**Valeria Cagnazzo (Galatina, 1993) è medico in formazione specialistica in Pediatria a Bologna. Sue poesie sono comparse nella plaquette “Quando un letto si svuota in questa stanza” per il progetto “Le parole necessarie”, nella rivista “Poesia” (Crocetti editore) e su alcune riviste online. Ha collaborato con il Centro di Poesia Contemporanea di Bologna. Per la sezione inediti, nel 2018 ha vinto il premio di poesia “Elena Violani Landi” dell’Università di Bologna e il premio “Le stanze del Tempo” della Fondazione Claudi, mediante il quale nel 2019 ha pubblicato la sua prima silloge poetica, “Inondazioni” (Capire Editore). Nel 2020, il libro è stato selezionato nella triade finalista del premio “Pordenone legge – I poeti di vent’anni”.