di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 10 febbraio 2022 – Con ogni probabilità è il generale Mohamed Hamdan Dagalo, tra i protagonisti del colpo di stato militare dello scorso 25 ottobre in Sudan, l’inviato «segreto» di Khartoum che a inizio settimana è arrivato in Israele per rafforzare i legami tra i due paesi. Martedì Dagalo è stato ricevuto dallo sceicco Mohamed bin Zayed al Nahyan, principe ereditario di Abu Dhabi, al quale ha espresso solidarietà per i recenti attacchi con droni e razzi dei ribelli yemeniti Houthi contro gli Emirati. Se così fosse, quello di Dagalo dovrebbe essere considerato un tour degli Accordi di Abramo del 2020 per la normalizzazione dei rapporti tra Israele e quattro paesi arabi: Emirati, Sudan, Marocco e Bahrain. Nonché una missione dei golpisti sudanesi per rafforzare i legami con paesi influenti a Washington e potenzialmente in grado, nelle loro previsioni, di favorire la ripresa dei finanziamenti americani e internazionali di cui il Sudan ha un disperato bisogno. L’economia sudanese si è contratta del 3,6% tra il 2020 e lo scorso anno e il Fondo monetario internazionale prevede che crescerà solo del 3,5% nel 2022. Numeri che ben spiegano l’ansia dei militari sudanesi affinché l’Amministrazione Biden revochi la sospensione degli aiuti a Khartoum per un valore di 700 milioni di dollari annunciata dopo il golpe. Ieri a Khartoum sono stati arrestati due importanti oppositori dei militari: Khalid Omer Yousif e Wagdi Salih.
Quanto Israele ed Emirati siano in grado (o desiderosi) di aprire la strada al riconoscimento di fatto del golpe è difficile quantificarlo. Di sicuro Tel Aviv sa che i militari sudanesi sono stati fondamentali per gli Accordi di Abramo e l’avvio di relazioni ufficiali tra Israele e Sudan. E non vogliono che Khartoum faccia passi indietro, sotto la pressione dell’opinione pubblica e di partiti politici che non hanno mai sostenuto le intese con Israele. Che sia questa la preoccupazione israeliana lo dimostra anche l’invio da parte del governo Bennett, subito dopo il golpe di ottobre e poi il mese scorso, di delegazioni israeliane in Sudan per incontrare il generale e capo delle forze armate Abdel Fattah al-Burhan mentre il paese africano veniva attraversato da imponenti manifestazioni di protesta contro il golpe e a sostegno di un governo formato solo da civili. Proteste che si sono intensificate in seguito alle dimissioni del primo ministro Abdalla Hamdok incapace di raggiungere un compromesso tra i militari e il movimento pro-democrazia.
Il Sudan è un paese strategico per gli interessi israeliani, come lo sono Emirati e Bahrain. Se questi due paesi hanno portato Israele sulle rive del Golfo, proprio di fronte al nemico iraniano, il Sudan è centrale per il controllo dell’area tra il Mar Rosso e l’Oceano Indiano. La previsione degli esperti israeliani è che Khartoum non annullerà la sua partecipazione all’Accordo di Abramo. In cambio del proseguimento della normalizzazione, Israele porterà avanti, anche con il golpista Al Burhan al potere, progetti agricoli e tecnologici in Sudan. Segnali di senso opposto comunque non mancano. Khartoum ha contestato l’assegnazione a Israele dello status di osservatore all’Unione africana (Ua) avvenuta un anno fa. Un tema che si è riproposto al vertice dell’Ua di qualche giorno fa ad Addis Abeba quando sono emerse evidenti le differenze tra i 55 paesi membri. L’ex presidente di turno, Moussa Faki Mahamat, ha difeso la sua decisione di accettare Israele come osservatore e ha criticato la richiesta di marcia indietro di Sudafrica, Nigeria e Algeria. Dalla parte di Israele si sono schierati R.D. del Congo e Marocco. Alla fine, il nuovo presidente dell’Ua, Macky Sall, ha rinviato la questione al vertice del 2023. Pagine Esteri