(questo articolo è stato pubblicato in origine dal quotidiano Il Manifesto)

di Michele Giorgio –

Pagine Esteri, 1 novembre 2023. Descritta come una «seconda fase», fatta di incursioni dentro Gaza ampie ma pur sempre limitate, l’offensiva di terra israeliana in realtà è in corso ed è vasta e distruttiva, con conseguenze evidenti per i civili palestinesi. Il fatto che il governo e i comandi militari israeliani cerchino di farla apparire «contenuta» ha lo scopo di calmare gli alleati statunitensi ed europei, ora un po’ in imbarazzo per aver sostenuto apertamente la rappresaglia senza freni di Israele all’attacco di Hamas del 7 ottobre, che ha colpito soprattutto la popolazione civile palestinese e non il movimento islamico. Strategie della comunicazione a parte, è davanti agli occhi di tutti l’invasione israeliana della metà settentrionale di Gaza. Le immagini dei carri armati israeliani sulla costa e allo stesso tempo sulle linee orientali della Striscia e il loro stringere su Gaza city, dicono che Israele sta impiegando migliaia di soldati e centinaia di mezzi corazzati, per rioccupare questo fazzoletto di territorio palestinese. Ciò che invece non è affatto chiaro e il governo Netanyahu fa il possibile per non dare punti di riferimento è la «soluzione politica» ciò il «dopo-Hamas» che ha in mente Israele, sempre ammesso che riesca a sradicare, come il suo gabinetto di guerra ripete ogni giorno, il movimento islamico. Senza dimenticare che la questione degli ostaggi nelle mani di Hamas diventerà sempre più rilevante finendo forse per imporre una tregua e un negoziato per lo scambio di prigionieri che oggi l’establishment israeliano esclude.

L’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen ribadisce che a Gaza non tornerà sui mezzi corazzati israeliani. Ma la sua posizione è irrilevante per il governo Netanyahu che non permetterà il rafforzamento ad una entità politica che, pur con i suoi grandi limiti ed errori, rappresenta ancora agli occhi del mondo l’idea di un futuro Stato palestinese indipendente nei Territori occupati. L’impressione che si ha è che l’idea dell’espulsione dei palestinesi da Gaza, una seconda Nakba 75 anni dopo, circolata qualche giorno fa, non sia una «fantasia». E non solo per i coloni israeliani che vorrebbero cacciare via tutti i palestinesi e ricostruire a Gaza gli insediamenti ebraici fatti demolire nel 2005 dal premier scomparso Ariel Sharon.

Si è appreso che il ministero dell’Intelligence ha raccomandato il trasferimento forzato e permanente dei 2,2 milioni di palestinesi di Gaza nella penisola egiziana del Sinai, grazie a un documento ufficiale rivelato dalla rivista israeliana +972 Local Call. Il documento di 10 pagine, datato 13 ottobre 2023, porta il logo del ministero guidato dall’esponente del partito Likud, Gila Gamliel, che produce ricerche politiche e condivide le sue proposte con le agenzie di sicurezza, l’esercito e altri ministeri. Valuta tre opzioni ma nelle sue conclusioni raccomanda il trasferimento totale della popolazione palestinese come linea d’azione preferita assieme all’allestimento di una tendopoli e alla costruzione di città nel Sinai per assorbire gli espulsi. Quindi invita Israele a mobilitare la comunità internazionale a sostegno di questo «progetto».

Qualcuno ha commentato che si tratta «solo» di un documento. Tuttavia, il fatto che un ministro del governo israeliano abbia preparato una proposta così dettagliata nel mezzo di un’offensiva militare su larga scala, dice che l’idea di cacciare via i palestinesi dalla loro terra è nella mente degli attuali leader politici israeliani come lo era decenni fa nei governanti del passato. A una proposta per l’espulsione dei palestinesi da Gaza lavora, riferisce sempre +972 Local Call, anche Amir Weitmann del Misgav Institute, un think tank guidato da Meir Ben-Shabbat, stretto collaboratore del primo ministro Netanyahu. A una Nakba «temporanea» aveva pensato anche l’Amministrazione Biden che per giorni ha discusso con l’Egitto di una tendopoli gigantesca nel Sinai. Poi ha frenato di fronte alla ferma opposizione dell’egiziano Abdel Fattah El Sisi, sostenuto da re Abdallah di Giordania. In casa israeliana però l’idea non sembra affatto morta, a giudicare dal silenzio del governo Netanyahu su chi dovrà a suo giudizio «governare» in futuro i palestinesi di Gaza.