di Valeria Cagnazzo

Pagine Esteri, Anabah, 21 novembre 2023 – Al confine tra il Pakistan e l’Afghanistan, le montagne continuano il racconto della terra in cielo. In questa stagione, le vette si uniscono al colore azzurro con un gesto leggero, che ne fa sbiadire i contorni rocciosi e le confonde con il celeste come in un cinguettio, come se nei millenni di sorveglianza alla frontiera la catena dell’Hindu Kush si fosse convertita alla lingua degli uccelli. Il ghiaccio in questa stagione colora le cime come la punta di un pastello sbriciolata da un temperino.

Le montagne dell’Hindu Kush si rincorrono per oltre 800 chilometri dalle regioni centro-occidentali dell’Afghanistan a quelle nord-orientali del Pakistan. Le più alte superano i 7.000 metri di altitudine – l’Himalaya non è troppo distante, con i suoi scalatori, le sue vertigini, gli scheletri seppelliti lungo i suoi crinali. Ottemperando per millenni al suo lavoro di reggere il cielo come un vestito, l’Hindu Kush ha di volta in volta svelato agli uomini riserve di lapislazzuli azzurri come i suoi ghiacci nella valle di Kowkchech, o di smeraldi nella valle del Panjshir, questo pozzo di luce dove mi trovo e dove sventolano le bandiere di Emergency dal 1999, o, ancora, ha fatto riaffiorare dalle sue radici i gioielli di Alessandro Magno, il re viaggiatore ossessionato dal superamento delle frontiere. La storia ha attraversato questi massicci con valichi e passi che permettessero in ogni direzione il movimento degli uomini, il contatto tra le culture, lo scambio delle merci, delle stoffe, delle spezie, delle lingue. Più che il tempo, è stata la guerra, come sempre, a logorarne tanti: durante l’occupazione militare del Paese a partire dal 2001, gli Stati Uniti sfruttarono molti di questi passi nella montagna per muovere i loro mezzi militari corazzati, rendendone molti, ancora oggi, inagibili.

Oltre che della natura montuosa, il confine tra Afghanistan e Pakistan è opera soprattutto del disegno degli uomini. Si chiama “linea Durand” la frontiera che per 2.640 km separa i due Paesi. Definita a tavolino alla fine dell’’800, aveva lo scopo di delimitare i territori della Corona Britannica in India da tutto quello che si trovava subito a nord, vale a dire un impero russo in espansione verso sud e verso gli sbocchi sul mare. Per frenarlo, quindi, l’allora emiro afghano fu convinto dagli ambasciatori britannici a ratificare questa frontiera. Si divisero ufficialmente, così, i due stati, con una barriera che, inutile dirlo, spaccava in due intere comunità pashtun.

In queste settimane, è lungo questa frontiera che si sta giocando la vita di quasi due milioni di profughi afghani.

Alla vigilia dell’inverno, due mesi fa, le autorità pakistane hanno, infatti, annunciato il nuovo piano di estradizione dal Paese degli immigrati illegali, in prima battuta dei rifugiati afghani senza documento di soggiorno, con un invito a lasciare il Pakistan entro il primo novembre. A partire da quella data, il Ministro degli Interni ha promesso che il governo avrebbe messo in campo tutti i mezzi per deportare i clandestini afghani rimasti. E, di fatto, è con estrema rapidità che la macchina dell’estradizione forzata si è messa in moto e, tra il 15 settembre e l’11 novembre, 327.000 profughi afghani sono già rientrati nel loro Paese d’origine, molti costretti anche sotto la minaccia dell’arresto, mentre un altro milione e settecentomila di loro rischia di affrontare lo stesso destino.

Per decenni, il Pakistan ha ospitato rifugiati dall’Afghanistan, in fuga dalla guerra, dalle persecuzioni o dalla miseria del loro Paese. Due ondate di migrazioni, in particolare, hanno segnato la diaspora afghana oltre il confine: la prima, nel 1979, ai tempi dell’occupazione sovietica del Paese. La seconda, che coinvolse almeno 800.000 persone, solo due anni fa, quando nell’agosto 2021 i talebani tornarono al potere, a seguito dell’uscita dal Paese delle forze internazionali che avevano occupato l’Afghanistan per oltre vent’anni e che adesso lo lasciavano in maniera caotica, con sagome di disperati aggrappati ai carrelli dei loro aerei di ritorno.

In tutto, il Pakistan sarebbe casa oggi per almeno 3.7 milioni di rifugiati afghani secondo le Nazioni Unite. Una popolazione che le autorità tengono a dividere in due sottogruppi: gli immigrati legali, ovvero i circa 1,3 milioni di rifugiati afghani regolarmente registrati, a cui si aggiungono altri 840.000 afghani in possesso di un altro tipo di documento che ne riconosca l’asilo, temporaneo o meno; e quelli, invece, illegali, che hanno attraversato la frontiera clandestinamente, percorrendo uno dei tanti passi che la traforano per il passaggio di treni merce e bestiame. Questi ultimi, nel giro di pochissimo tempo, sono finiti in cima alle agende del governo di Anwaar-ul-Haq Kakar con una sola risoluzione: la deportazione.

Non basta l’inverno imminente a fermare il piano di creare un improvviso popolo di due milioni di profughi rimpallati da un versante all’altro della frontiera. Profughi nel loro Paese. Per quanto anche questa definizione, per la grande maggioranza di questa massa di persone oggetto della discordia tra Aghanistan e Pakistan, sia inesatta: dal 1979 ad oggi, sono trascorsi 44 anni. Vale a dire una vita. Molti dei rifugiati che il governo pakistano vuole adesso rigettare indietro con un colpo di scopa sono nati in Pakistan, lì sono cresciuti, lì hanno frequentato la scuola, e magari ci si sono innamorati e vi hanno messo su una famiglia e una casa. Buona parte di loro non ha più nessun legame in Afghanistan, meno che mai con il nuovo-vecchio Paese amministrato dal governo de facto dei talebani.

Né l’Afghanistan sarebbe pronto a ricevere questa ondata di persone. La crisi umanitaria, per quanto lontana dai riflettori mediatici, continua a tenere quasi la totalità della popolazione, oltre 24 milioni di abitanti, sotto la soglia di povertà, e a rendere dipendente almeno la metà dall’assistenza internazionale, il cui intervento nel Paese, però, si è drasticamente ridotto dopo il ritorno dei talebani. I quali rigettano la politica pakistana di deportazione dei rifugiati, e annunciano, intanto, l’allestimento dei primi campi profughi transitori per fornire cibo e aiuto temporaneo ai deportati afghani.

Le tensioni tra i due Paesi si inaspriscono di giorno in giorno, ma il Pakistan non accetta intimidazioni e sembra sordo anche alle denunce della comunità internazionale: per il governo pakistano, i rifugiati afghani senza documento sono “un problema di sicurezza” da risolvere con urgenza. Secondo il Ministro degli Interni pakistano Sarfraz Bugti, dei 24 attentati suicidi avvenuti in Pakistan nell’ultimo anno, almeno 14 sarebbero riconducibili a residenti di nazionalità afghana. “Sono attacchi contro di noi da parte dell’Afghanistan e gli afghani sono coinvolti in questi attacchi. Ne abbiamo le prove”, avrebbe aggiunto. Accuse che l’autoproclamatosi Emirato Islamico dell’Afghanistan ha rigettato, dichiarando che l’Afghanistan non può essere colpevolizzato del “fallimento della sicurezza” di altri Paesi nella regione.

Quasi due milioni di persone sono diventate il pericolo da epurare per sbarazzarsi dallo spettro della violenza terroristica nel Paese. Al costo di incrinare definitivamente i rapporti politici ed economici con l’Afghanistan, ma con il beneficio di investire le deportazioni nella propaganda politica per le elezioni annunciate per il mese di febbraio 2024.

Da Ginevra, il 15 novembre scorso l’Alto Commissario per i Diritti Umani Volker Turk si è detto “allarmato” dai report che riferiscono gli abusi, i maltrattamenti, le detenzioni arbitrarie, la distruzione delle proprietà e delle estorsioni che stanno caratterizzando l’ondata di deportazioni condotte dal Pakistan contro i profughi afghani. L’obiettivo è, secondo molte testimonianze, quello di rendere la vita dei profughi afghani impossibile, così da costringerli con la forza a lasciare tutto affrontando il viaggio verso l’ignoto. Raid notturni, sequestro di gioielli e beni di prima necessità, fino alla chiusura di attività commerciali e all’arresto di rifugiati per ore o per giorni. Ferma è arrivata la condanna anche da parte della ONG Amnesty International, che ha chiamato il Pakistan a “fermare le deportazioni”.

C’è un senso di paura nella comunità afghana, viviamo costantemente in ansia, sigilliamo le porte appena sentiamo le auto della polizia avvicinarsi”, ha raccontato Junaid in un report di Amnesty International.

“Migliaia di rifugiati afghani stanno venendo usati come pedine politiche”, ha denunciato Livia Saccardi, che per la ONG è Regional Director per l’Asia Meridionale, “per essere riportati nell’Afghanistan a guida talebana dove la loro vita e la loro integrità fisica potrebbe essere in pericolo, nel pieno di un crollo dei diritti umani e di una catastrofe umanitaria in corso. Nessuno dovrebbe essere sottoposto a deportazioni forzate di massa, e il Pakistan dovrebbe ricordare bene i suoi obblighi secondo il diritto internazionale, incluso il principio di non-respingimento”.

Per agevolare le operazioni, il governo pakistano ha costruito 49 centri di detenzione, che preferisce definire “di transito”, con la possibilità di realizzarne di nuovi. Non esiste, tuttavia, un ordinamento legale che regolamenti la gestione dei centri. In almeno di sette di questi, sempre Amnesty ha potuto documentare la totale assenza del rispetto dei diritti umani come il diritto a un avvocato o di comunicare con i familiari, che spesso assistono alla scomparsa di un loro caro senza riceverne più notizie.

Una volta superato il confine, le prime vittime della deportazione sarebbero, poi, senza dubbio le donne e le bambine, strappate da un giorno all’altro alla possibilità di ricevere un’educazione e di avere un lavoro e una vita pubblica.

“Il Pakistan deve assicurare la protezione per gli individui che potrebbero affrontare persecuzioni, torture, maltrattamenti o altri irrimediabili rischi in Afghanistan”, ha dichiarato l’Alto Commissario Turk. “Questo include le donne e le bambine, gli ufficiali e il personale di sicurezza del precedente governo, le minoranze etniche e religione, gli attivisti per i diritti umani e della società civile e gli operatori mediatici”.

“Questi nuovi sviluppi sono un cambio di passo della lunga tradizione pakistana di accogliere, generosamente, rifugiati afghani in vasti numeri”, ha aggiunto Turk. Già tra il 2015 e il 2016, tuttavia, quando le relazioni politiche col governo afghano iniziavano a deteriorarsi, ai profughi afghani in Pakistan era spettato un destino molto simile, con raid e maltrattamenti denunciati da Human Rights Watch e minacce di deportazioni di massa, in molti casi andate a termine. Né i richiami dell’Onu o di Amnesty intimidiscono adesso il governo pakistano, che nella persona del Ministro dell’Informazione Jan Achakzai promette che “tutti i profughi afghani saranno deportati entro la fine di gennaio”.

Il Pakistan non è il solo, del resto, a volersi liberare degli immigrati afghani proprio nel cuore della stagione più fredda. Anche dall’Iran, più in sordina, nella sola scorsa settimana sarebbero stati rimpatriati circa 20.000 rifugiati.

In Afghanistan, intanto, un sole tardivo ancora riscalda, fino al tramonto, e le vette si imbiancano lentamente, una alla volta, come un presagio di futuro dal cielo. Ma il clima secco già spacca le mani e le labbra, e la notte il gelo arriva improvviso sul petto, come una coperta bagnata. La frontiera afghana si prepara incredula a venire attraversata migliaia di volte per consegnare all’inverno più cupo e al freddo più disperato i suoi antichi figli senza più una casa.