di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 5 febbraio 2024 – Dopo l’uccisione di tre soldati americani in un attacco a sorpresa contro una base militare segreta in Giordania alcuni giorni fa, l’amministrazione Biden aveva promesso una rappresaglia esemplare.
Ma i massicci bombardamenti condotti sabato da Washington contro le milizie filoiraniane in Siria e in Iraq rappresentano un ulteriore passo in una escalation che rischia di andare completamente fuori controllo, innescando una guerra totale in Medio Oriente dagli esiti inimmaginabili.
Quello di Washington non è stato un raid episodico, di quelli fin qui condotti all’interno di un braccio di ferro con l’Iran fatto di azioni e rappresaglie in qualche modo misurate e deterrenti, ma un attacco su vasta scala contro decine di obiettivi. Non solo; Biden ha annunciato nuove azioni massicce aggressive ed ha minacciato di colpire direttamente il territorio iraniano.
Gli Stati Uniti devono dimostrare che fanno sul serio e che non intendono stare alla finestra mentre il cosiddetto “asse della Resistenza” – la rete di organizzazioni militari e politiche radicate in diversi paesi del Medio Oriente che fanno riferimento a Teheran – aumenta la pressione nei confronti di Israele per rivendicare la propria egemonia e contrastare il genocidio della popolazione di Gaza.
Washington ha lanciato un messaggio chiaro all’Iran e ai suoi alleati: se serve, gli Stati Uniti sono pronti anche alla guerra. Si tratta, in parte, di un bluff, e gli avversari degli Stati Uniti, ne sono coscienti. Una guerra frontale in Medio Oriente obbligherebbe la Casa Bianca, già impegnata sul fronte ucraino contro la Russia, a mobilitare centinaia di migliaia di uomini e centinaia di miliardi di dollari in un conflitto con forze assai più coese e battagliere rispetto all’esercito di Saddam Hussein, spazzato via senza grande sforzo pochi decenni fa.
Certamente, i caccia e i droni statunitensi sono entrati in azione per proteggere Israele, anche se negli anni i rapporti tra Washington e Tel Aviv si sono deteriorati visto che la nuova classe dirigente sionista vuole fare di testa sua e i suoi eccessi rischiano di mandare in pezzi la rete che gli Stati Uniti stanno faticosamente cercando di tessere con i paesi arabi dagli Accordi di Abramo in poi.
Ma è soprattutto per proteggere i suoi di interessi che gli Stati Uniti hanno deciso di entrare in azione con una campagna di bombardamenti così estesa, per tentare di rafforzare – o meglio, di ristabilire – la propria egemonia in un quadrante del mondo in cui la presa di Washington si è fortemente allentata. Negli ultimi decenni, il tradizionale dominio statunitense in Medio Oriente è stato indebolito dall’intervento russo a difesa del regime siriano e dalla crescita del ruolo iraniano nella regione, incentivato anche dai gravissimi errori compiuti da Washington ad esempio in Iraq che hanno favorito l’ascesa dei movimenti sciiti. Anche l’autonomizzazione del regime turco e le pretese egemoniche delle petromonarchie sunnite hanno ridotto Washington ad un attore spesso di secondo piano. Ora l’amministrazione Biden cerca di recuperare terreno esercitando il ruolo di gendarme globale già interpretato in passato, ma in un contesto completamente mutato e con la grazia di un elefante in un negozio di cristalli.
L’Iran e il suo alleato principale nella regione, il movimento sciita libanese Hezbollah, hanno più volte chiarito che non progettano di entrare in guerra con Israele, tantomeno con gli Stati Uniti. Israele è una potenza nucleare spregiudicata e può contare su un esercito tra i più forti del mondo, sorretto dai massicci invii di armi statunitensi e dagli aiuti finanziari provenienti da Washington. Attualmente la guerriglia trumpiana sta bloccando al Senato di Washington circa 14 miliardi di dollari destinati a Tel Aviv, ma in caso di guerra i Repubblicani difficilmente potrebbero mantenere il veto.
L’Iran, invece, sconta una profonda crisi economica – frutto anche di decenni di embarghi economici – e non è militarmente pronto per uno scontro diretto. Se volesse sostenere una guerra frontale, Teheran dovrebbe convincere Mosca e Pechino a un sostegno economico e militare massiccio che, almeno al momento, non sembra all’ordine del giorno (anche se proprio oggi Cina e Russia hanno annunciato esercitazioni militari congiunte con l’Iran).
Ma se Biden è convinto che aumentando la pressione militare contro le ramificazioni di Teheran in Medio Oriente convincerà gli ayatollah a fermarsi per evitare una guerra regionale su vasta scala nella quale questi ultimi non vogliono assolutamente imbarcarsi, è anche vero che le continue provocazioni di Washington e di Tel Aviv – bombardamenti, omicidi mirati, attentati, sabotaggi – in vari paesi del quadrante rischiano di suscitare l’effetto contrario.
Fino a quando la classe dirigente iraniana potrà sopportare di essere colpiti senza perdere la faccia di fronte alle rispettive popolazioni già inferocite dopo quattro mesi di operazioni militari israeliane che hanno ucciso decine di migliaia di palestinesi e reso la Striscia di Gaza un cumulo di macerie? Fin quando gli apparati dell’Asse della Resistenza riusciranno a tenere a basa gli incitamenti alla vendetta di organizzazioni decimate da un continuo stillicidio di omicidi mirati?
Il rischio è proprio che il meccanismo “azione-ritorsione”, che fin qui ha consentito ad entrambi i contendenti di tenere il punto, mirando a disincentivare l’avversario dallo spingersi oltre nello scontro, sfugga improvvisamente di mano.
Basterebbe che una delle milizie alleate – ma non necessariamente del tutto controllate da Teheran – decidesse di alzare il tiro contro Israele o gli interessi di Washington nella regione per accendere una miccia che nessuno sarebbe più in grado di spegnere. Ad esempio in Iraq, dove da tempo movimenti politici e militari sciiti ma anche nazionalisti sunniti chiedono a gran voce l’espulsione delle truppe statunitensi di stanza nel paese. Non a caso il portavoce delle forze armate irachene, Yahya Rasul, ha denunciato: «Questi attacchi sono una violazione della sovranità irachena, minano gli sforzi del nostro governo e rappresentano una minaccia che trascinerà l’Iraq e la regione verso conseguenze impreviste, le cui ripercussioni saranno disastrose». Persino l’alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri, il catalano Josep Borrell, si è profuso in un sibillino «Tutti dovrebbero evitare che la situazione nella regione diventi esplosiva».
Sul fronte opposto Israele e le lobby filoisraeliane statunitensi, da decenni spingono per una guerra totale con l’Iran e potrebbero approfittare del clima già incandescente per dare fuoco alle polveri e mettere la Nato di fronte al fatto compiuto. Imbarcandoci tutti in una guerra regionale sì, ma su vasta scala, ennesimo e imprevedibile fronte di una guerra mondiale “a pezzi” che stiamo già combattendo senza che sia mai stata dichiarata.
La maggior parte degli analisti, al momento, non crede all’imminenza di una guerra totale in Medio Oriente. Eppure, afferma la CNN, «Errori o eventi imprevisti possono portare a spirali e ciò può portare a conflitti inevitabili e più ampi in una zona ad alta tensione». «È quasi un miracolo che un conflitto più ampio non sia già scoppiato in Medio Oriente quattro mesi dopo l’attacco del gruppo militante palestinese Hamas contro Israele» riconosce il network statunitense. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria