di Franco Ferioli
Pagine Esteri, 27 maggio 2021 – Non appena l’impiego operativo dell’aereo come fattore preponderante di superiorità nei conflitti venne teorizzato da Giulio Douhet nel 1909, gli italiani divennero i primi a livello mondiale ad utilizzare questa arma bellica durante la Guerra italo-turca della Campagna di Libia.
ll 1º novembre 1911 il sottotenente Giulio Gavotti eseguì da un velivolo in volo il primo bombardamento aereo della storia, volando a bassa quota su un accampamento turco ad Ain Zara e lanciando tre bombe a mano.
Pochi anni dopo entrarono in servizio nuovi aerei, tecnicamente più capaci di svolgere il ruolo offensivo al quale erano stati predisposti e le azioni assunsero l’aspetto di un’inarrestabile escalation militare.
Tra il mese di aprile e l’agosto del 1917 furono eseguite contro le oasi di Zanzour e Zavia, un centinaio di azioni con il lancio di 1.270 chilogrammi di liquido incendiario e 3.600 chili di bombe.
Dal 1924 al 1926 gli aerei ebbero l’ordine di alzarsi in volo per bombardare tutto ciò che si muoveva nelle oasi non controllate dalle truppe italiane.
Dal novembre 1929 alle ultime azioni del maggio 1930, l’aviazione in Cirenaica eseguì, secondo fonti ufficiali, ben 1.605 ore di volo bellico lanciando 43.500 tonnellate di bombe e sparando diecimila colpi di mitragliatrice.
La strategia aerea e la politica della terra bruciata, spinse migliaia di uomini, donne e bambini terrorizzati a lasciare la Libia, chi verso la Tunisia e l’Algeria, chi in direzione del Ciad o dell’Egitto e i bombardamenti diventarono sempre più violenti, scientifici e sperimentali.
In Cirenaica pacificata, uno dei libri con i quali il generale Graziani volle giustificare la sua azione repressiva e rispondere alle accuse di genocidio, c’è un breve capitolo sul bombardamento di Taizerbo, una delle roccaforti della resistenza anti italiana capeggiata dall’imam Omar el Mukhtar, avvenuto il 31 luglio 1930, sei mesi dopo l’esortazione di Pietro Badoglio all’uso dell’iprite: “Per rappresaglia, ed in considerazione che Taizerbo era diventata la vera base di partenza dei nuclei razziatori il comando di aviazione fu incaricato di riconoscere l’oasi e – se del caso – bombardarla. Dopo un tentativo effettuato il giorno 30 -non riuscito, per quanto gli aeroplani fossero già in vista di Taizerbo, a causa di irregolare funzionamento del motore di un apparecchio, la ricognizione venne eseguita il giorno successivo e brillantemente portata a termine. Quattro apparecchi Ro, al comando del ten.col. Lordi, partirono da Giacolo alle ore 4.30 rientrando alla base alle ore 10.00 dopo aver raggiunto l’obiettivo e constatato la presenza di molte persone nonché un agglomerato di tende. Fu effettuato il bombardamento con circa una tonnellata di esplosivo e vennero eseguite fotografie della zona. Un indigeno, facente parte di un nucleo di razziatori, catturato pochi giorni dopo il bombardamento, asserì che le perdite subite dalla popolazione erano state sensibili, e più grande ancora il panico”.
Vincenzo Lioy, nel suo libro sul ruolo dell’aviazione in Libia (Gloria senza allori, Associazione Culturale Aeronautica), ha aggiunto un’agghiacciante rapporto firmato dal tenente colonnello dell’Aeronautica Roberto Lordi, comandante dell’aviazione della Cirenaica (rapporto che Graziani inviò al Ministero delle colonie il 17 agosto) nel quale si apprende che i quattro apparecchi Ro erano armati con 24 bombe da 21 chili ad iprite, 12 bombe da 12 chili e da 320 bombe da 2 chili, e che “(…) in una specie di vasta conca s’incontra il gruppo delle oasi di Taizerbo. Le palme, che non sono molto numerose, sono sparpagliate su una vasta zona cespugliosa. Dove le palme sono più fitte si trovano poche casette. In prossimità di queste, piccoli giardini verdi, che in tutta la zona sono abbastanza numerosi; il che fa supporre che le oasi siano abitate da numerosa gente. Fra i vari piccoli agglomerati di case vengono avvistate una decina di tende molto più grandi delle normali e in prossimità di queste numerose persone. Poco bestiame in tutta la conca. II bombardamento venne eseguito in fila indiana passando sull’oasi di Giululat e di el Uadi e poscia sulle tende, con risultato visibilmente efficace”.
II primo dicembre dello stesso anno il tenente colonnello Lordi inviò a Roma copia delle notizie sugli effetti del bombardamento a gas effettuato quel 31 luglio sulle oasi di Taizerbo “ottenute da interrogatorio di un indigeno ribelle proveniente da Cufra e catturato giorni or sono”.
È una testimonianza raccapricciante raccolta materialmente dal comandante della Tenenza dei carabinieri reali di el Agheila: “Come da incarico avuto dal signor comandante l’aviazione della Cirenaica, ieri ho interrogato il ribelle Mohammed abu Alì Zueia, di Cufra, circa gli effetti prodotti dal bombardamento a gas effettuato a Taizerbo. II predetto, proveniente da Cufra, arrivò a Taizerbo parecchi giorni dopo il bombardamento, seppe che quali conseguenze immediate vi sono quattro morti. Moltissimi infermi invece vide colpiti dai gas. Egli ne vide diversi che presentavano il loro corpo ricoperto di piaghe come provocate da forti bruciature. Riesce a specificare che in un primo tempo il corpo dei colpiti veniva ricoperto da vasti gonfiori, che dopo qualche giorno si rompevano con fuoruscita di liquido incolore. Rimaneva così la carne viva priva di pelle, piagata. Riferisce ancora che un indigeno subì la stessa sorte per aver toccato, parecchi giorni dopo il bombardamento, una bomba inesplosa, e rimasero così piagate non solo le sue mani, ma tutte le altre parti del corpo ove le mani infette si posavano”.
L’uso dell’iprite, che doveva diventare un preciso sistema di massacro della popolazione civile in Etiopia qualche anno più tardi, fu certamente una scelta sia militare che politica così come i bombardamenti dovevano corrispondere a scelte di colonizzazione ben precise e sistematiche di quella che Gaetano Salvemini, quando ebbe inizio l’avventura coloniale italiana in Libia definì “Un’immensa voragine di sabbia”:
Benito Mussolini volle che fosse il gerarca Italo Balbo ad occuparsene dopo averlo sollevato dall’incarico di Ministro dell’Aeronautica del Regno d’Italia e inviato in qualità di Governatore nel 1934.
Balbo dichiarò che avrebbe seguito le gloriose orme dei suoi predecessori e avviò una campagna nazionale che voleva portare due milioni di emigranti sulla Quarta Sponda Italiana del Mediterraneo.
Ne arrivarono soltanto 31mila, ma furono un numero sufficiente da trincerare dietro un muro militare, costruito nel 1931 in Cirenaica, per contrastare la resistenza delle tribù beduine degli indipendentisti libici.
Quel muro, il muro italiano di Giarabub, è tuttora presente e in funzione come barriera anti-immigrazione: una doppia linea di recinzione metallica lunga 270 chilometri, larga quattro metri, alta tre, visibilmente malandata ma resa insuperabile da chilometri di matasse di filo spinato che si srotolano dalle regioni a ridosso del porto di Bardia, lungo le sterpaglie desolate della Marmarica, fino a perdersi nel Grande Mare di Sabbia del Deserto Libico.
Questa grande opera venne commissionata alla Società Italiana Costruzioni e Lavori Pubblici di Roma, che la realizzò in sei mesi, dal 15 aprile al 5 settembre 1931, ad un costo complessivo di circa venti milioni di lire, impegnando nella costruzione 2.500 indigeni sorvegliati da 1.200 soldati e carabinieri, lungo un percorso totalmente privo di strade e di risorse idriche.
Il reticolato di filo spinato è sostenuto da paletti di ferro con base in calcestruzzo, vigilato dai ruderi fatiscenti di tre ridotte e sei ridottini; lungo il suo percorso vennero costruiti tre campi d’aviazione, una linea telefonica, 270 milioni di paletti di ferro e ventimila quintali di cemento.
Il compito di sorveglianza e controllo è sempre stato garantito dall’innesco di migliaia di mine antiuomo, ma per un certo periodo fu oggetto di ricognizioni aeree audacemente condotte, oltre che dai piloti dell’Aeronautica Militare, anche e direttamente dal loro capo supremo e Maresciallo dell’Aria Italo Balbo a bordo di veivoli derivati dai trimotori Savoia Marchetti da lui impiegati nelle transvolate atlantiche e che divennero caccia bombardieri siluranti chiamati Sparvieri.
Nei sei anni che Balbo visse e volò in Libia, lo Sparviero abbatté tutti i record e tutti i primati di volo civile, velocità, trasporto, durata, distanza, poi il salto di qualità e da civile divenne aereo militare: nella versione S.79K, l’impiego operativo di questo modello avvenne con l’intervento italiano nella guerra civile spagnola e il 26 aprile 1937, tre S.M.79 dell’Aviazione Legionaria presero parte al bombardamento della cittadina basca di Guernica, un’incursione aerea compiuta in cooperazione con la Legione Condor nazista, che colpì nottetempo la popolazione civile inerme e ispirò il celeberrimo dipinto di denuncia di Pablo Picasso.
Sette anni prima era alla guida di grandi imprese di voli transatlantici: il primo nel 1930 da Orbetello a Rio de Janeiro; il secondo tre anni dopo, da Orbetello a Chicago. Questa seconda crociera, organizzata per celebrare il decennale della Regia Aeronautica Militare Italiana nell’ambito dell’Esposizione Universale Century of Progress che si tenne a Chicago tra il 1933 e il 1934, lo aveva coperto di gloria.
Il governatore dell’Illinois e il sindaco della città di Chicago riservarono ai trasvolatori un’accoglienza trionfale: a Balbo venne intitolata una strada, tutt’oggi esistente, e i Sioux presenti all’Esposizione lo nominarono capo indiano, con il nome di Capo Aquila Volante. Il volo di ritorno proseguì per New York, dove il presidente Roosevelt organizzò, in onore agli equipaggi della flotta di 25 idrotransvolanti italiani, una grande street parade.
Gli esaltatori delle trasvolate atlantiche non mancano di citare ogni tipo di manifestazione organizzata a Chicago in onore del grande pilota, ma omettono sempre di citare lo striscione che pare recitasse “Balbo, don Minzoni ti saluta” e che commemorava l’onore da lui acquisito come pioniere dello squadrismo fascista.
Là, in Italia, partendo dalle valli del delta padano, aveva visto portare a compimento grandi opere di bonifiche che strapparono alle acque nuove terre da coltivare e nuove forme di diritti sindacali da reprimere grazie all’”esaltazione della violenza come il metodo più rapido e definitivo per raggiungere il fine rivoluzionario” (Italo Balbo, Diario 1922, Mondadori).
Sempre là, nella bassa provincia Ferrarese, aveva inaugurato la strategia criminale delle esecuzioni mirate come responsabile diretto, morale e politico dei due omicidi premeditati, da lui considerati ’bastonate di stile’, che significavano frattura del cranio, somministrate al sindacalista Natale Gaiba e al sacerdote don Giovanni Minzoni.
Natale Gaiba venne assassinato per vendicare l’offesa, compiuta quando il sindacalista argentano era assessore del Comune di Argenta, di aver fatto sequestrare l’ammasso di grano del Molino Moretti, imboscato illegalmente per farne salire il prezzo, venisse strappato ai latifondisti agrari e restituito al popolo che lo aveva prodotto coltivando la terra, ridotto alla fame.
Don Minzoni, parroco di Argenta, venne assassinato dai fascisti locali: Balbo non volle ammettere che fossero stati individuati e arrestati i colpevoli e intervenne in molti modi, anche con la costante presenza in aula, per condizionare lo svolgimento e il risultato sia delle indagini che del processo penale, garantendo l’impunità del crimine.
Qui, in Libia, Italo Balbo non riuscì a trovare, nemmeno con la forza, l’acqua sufficiente da donare alla terra di quei pochi coloni veneti e della bassa ferrarese che, sotto l’enfasi propagandistica del regime, lo avevano raggiunto, si erano rimboccati le maniche e si erano illusi di rendere verde il deserto “liberato”.
Fu sempre qui, in Libia, che italo Balbo, per tragica ironia della sorte o per fatale coincidenza, precipitò realmente in una voragine di sabbia e trovò la morte, colpito dal fuoco amico della artiglieria contraerea italiana nei cieli di Tobruk il 28 giugno 1940. Evidentemente mentre lui seguiva le orme dei grandi colonizzatori italiani, qualcos’altro stava seguendo le sue tracce, poiché la responsabilità storica di quanto avvenuto per sbaglio, come tragico errore e incidente di guerra, venne assunta in prima persona da un capo pezzo del 202 Reggimento di Artiglieria, che ammise di aver sparato raffiche di artiglieria contraerea all’indirizzo del trimotore Savoia Marchetti 79 pilotato dal suo comandante supremo nonché concittadino Italo Balbo, essendo significativamente pure lui, Claudio Marzola, 20enne, un ferrarese purosangue.
I colpi letali partirono da una delle tre mitragliatrici da 20 mm in dotazione a un Incrociatore Corazzato della Marina Regia che permaneva in rada semiaffondato e a scopo difensivo antiaereo, varato con lo stesso nome del santo patrono della città di Ferrara: San Giorgio.