di Michele Giorgio –

Pagine Esteri, 30 marzo, 2022 (nella foto Damasco)- Non è passato inosservato, all’inizio dell’attacco russo all’Ucraina, l’appoggio immediato di Bashar Assad a Vladimir Putin. La Siria è stato l’unico dei paesi arabi a schierarsi in modo netto e senza esitazioni dalla parte di Mosca. Altri, come Emirati e Arabia saudita, che pure sono alleati di ferro dell’Occidente, hanno comunque adottato posizioni vaghe che non sono piaciute agli Stati uniti. Nessuna sorpresa, la posizione espressa da Assad era scontata. Mosca intervenendo militarmente, dal 2015 in poi, a supporto dell’esercito siriano ha garantito a Damasco la superiorità militare necessaria per sbaragliare varie milizie di opposizione, islamiste e jihadiste, e recuperare il controllo di buona parte del territorio siriano. Allo stesso tempo la Russia si è assicurata una importante roccaforte militare nel Mediterraneo e una base per le sue politiche, anche economiche, in Medio oriente. Tuttavia, a distanza di un mese, sorgono interrogativi sulla fermezza di Assad nello schierarsi dalla parte di Mosca impegnata in una offensiva in Ucraina condannata globalmente, con poche eccezioni.

 

Le voci siriane ufficiali ribadiscono appoggio pieno alla Russia e nei ranghi di Mosca combatterebbero in Ucraina, o si preparano a farlo, anche «volontari» (mercenari) siriani. Però dietro le quinte a Damasco si interrogano sul pericolo di dover fare i conti con le pesanti sanzioni statunitensi ed europee contro la Russia e di dover affrontare un isolamento internazionale ancora più rigido. Domande centrali in un paese che è colpito dalle misure punitive Usa previste dal Caesar Act e dalle precedenti sanzioni occidentali – che colpiscono milioni di civili – varate dopo il 2011, quando cominciarono ampie proteste a Daraa e in altre città siriane contro Bashar Assad, sfociate poi in una sanguinosa guerra civile. Senza dimenticare la costituzione, a un certo punto, del Califfato dell’emiro dell’Isis Abu Baker al Baghdadi su ampie porzioni di territorio siriano e iracheno.

Damasco, ci spiega una fonte ben informata nella capitale siriana, «non può prendere le distanze da Mosca», sua alleata strategica assieme a Teheran, però «avrebbe preferito evitare i riflettori e le conseguenze del conflitto in Ucraina e assecondare l’evoluzione del lento ma costante riavvicinamento ai paesi arabi, anche quelli suoi avversari». Un processo di normalizzazione di rapporti che va avanti nonostante non sia appoggiato dagli Stati uniti che, da parte loro, continuano ad escludere il riconoscimento della vittoria militare ottenuta dall’esercito siriano sulle milizie avversarie e puntano alla rimozione dal potere di Assad.

Nelle scorse settimane il presidente siriano ha visitato Abu Dhabi, un viaggio che è l’ultimo segno del reinserimento della Siria nell’ovile diplomatico del mondo arabo. Si è trattato del primo Stato arabo che Assad ha visitato dall’inizio della guerra civile nel 2011 e ha confermato l’intenzione di Abu Dhabi di guidare gli sforzi dall’interno del Consiglio di cooperazione del Golfo (GCC) a favore di Damasco. Certo al leader siriano non dispiace essere una delle cause di tensione tra Washington e Abu Dhabi e del recente rifiuto del principe ereditario Mohammed bin Zayed di parlare con il presidente Joe Biden desideroso di ascoltare le ragioni dietro i rapporti che gli Emirati mantengono forti con la Russia.

Gli Emirati considerano il loro approccio alla Siria pratico e realistico. Al contrario del Qatar, che si oppone con forza alla normalizzazione delle relazioni con Damasco, Abu Dhabi crede di dover venire a patti con l’inevitabile. E considerando il peso crescente degli Emirati, altri paesi – Bahrain, Egitto e Sudan – potrebbero presto ospitare il presidente siriano. «Assad ne è compiaciuto ma sa che non può fare affidamento solo sull’appoggio di Abu Dhabi» dice al manifesto l’analista Mouin Rabbani. «È vero che le sanzioni occidentali contro la Russia potrebbero danneggiare la Siria ma gli Emirati non potranno mai assicurare la sopravvivenza del regime di Damasco nel modo in cui ha fatto la Russia». A tali condizioni, aggiunge Rabbani, la Siria «non ha alcun interesse a prendere le distanze da Mosca e la situazione ricorda la rottura dei rapporti tra il movimento islamico Hamas con Damasco e Tehran nel 2011-12. Hamas si aspettava di essere riconosciuto e ricompensato per aver abbandonato la Siria e l’Iran ma non ne ricavò alcun vantaggio. Un precedente che spinge Assad a tenersi stretta Mosca». Pagine Esteri