di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 06 luglio 2021 – Presidente dell’Agenzia ebraica, Presidente della Knesset, Capo dello Stato ad interim di Israele, per anni dirigente del Partito laburista per anni, figlio di Yosef Burg ministro ed esponente di punta dei religiosi nazionalisti. Titoli più da establishment sionista di questi se ne trovano pochi. Eppure, Avraham Burg, se la sua domanda sarà accolta dalla Corte Suprema, non verrà più designato come ebreo nel registro della popolazione israeliana. «Non smetterò di sentirmi un ebreo ma non voglio più far parte della collettività ebraica in Israele, non voglio percepirmi come un privilegiato rispetto ai non ebrei, chiedo di essere un cittadino israeliano e basta», ci spiega Burg dandoci il benvenuto nella biblioteca, vuota per le misure anti-Covid, di Tantur, il centro religioso cristiano alle porte di Betlemme dove si reca spesso a leggere e studiare. Quale sarà la decisione dei giudici è difficile prevederlo. Dieci anni fa accolsero la richiesta dello scrittore Yoram Kaniuk che non voleva più essere definito ebreo ma un «senza religione». Burg pone una questione diversa e più complessa, che riguarda la sua nazionalità, chiede che sia indicata come «israeliana» e non come «ebraica». Rischia un rifiuto perché in passato la Corte suprema ha stabilito che nell’ordinamento del paese non esiste la «nazionalità israeliana».
Lei già da anni nei suoi libri, nelle conferenze, nei dibattiti ha preso le distanze dal Sionismo, dell’idea di Israele come Stato degli ebrei, dichiarandosi per l’inclusione e contro l’esclusione. Ora c’è questa decisione, che in Israele definiscono «estrema» considerando la sua storia
È frutto di un percorso personale e una conseguenza della legge fondamentale approvata dalla Knesset nel 2018 che descrive Israele come Stato della nazione ebraica e non di tutti i suoi cittadini. Legge che respingo totalmente dal primo all’ultimo articolo. Mio padre era un tedesco ebreo. Prima del nazismo e delle persecuzioni degli ebrei questa definizione, tedesco ebreo, era del tutto ovvia e comprensibile. Mio padre era un cittadino tedesco appartenente alla comunità ebraica e di religione ebraica. Come in Italia un italiano è cittadino italiano e allo stesso tempo professa un credo, appartiene a un gruppo, a una minoranza. Si è uguali mantenendo la propria storia, la propria cultura, la propria fede. La situazione qui è diversa. L’idea di Israele come uno Stato ebraico era già lì nel 1948 e la «nazionalità ebraica» fu introdotta nel registro della popolazione con ovvi riflessi nella vita reale, nella società. Allo stesso tempo i principi contenuti nella Dichiarazione d’indipendenza tutelavano i cittadini non ebrei. In sostanza all’epoca si cercò di trovare una sorta di equilibrio tra uno Stato che si proclamava genericamente ebraico e lo status dei non ebrei in esso, tra i tanti e i pochi, tra la maggioranza e la minoranza. Quell’equilibrio è stato spazzato via.
Dalla legge Stato-nazione?
Sì. Le forze ultraconservatrici di destra, religiose fondamentaliste che dominano la Knesset, due anni fa hanno sancito in forma scritta che Israele appartiene soltanto alla «nazione ebraica». Di conseguenza, nero su bianco, i non ebrei, gli arabi, sono discriminati in modo ufficiale, per legge, in uno Stato che sostiene di essere democratico. Per me è un punto di non ritorno. Sono ebreo ma non voglio appartenere alla «nazione ebraica» di fronte a ciò che essa rappresenta in Israele. La mia coscienza non mi consente di essere classificato come membro di quella nazione poiché implica il far parte di un gruppo speciale mentre un non ebreo è a un livello inferiore. Se questa legge venisse approvata in un paese dove c’è una minoranza ebraica, sarebbe senza alcun dubbio definita antisemita. E visto che non sono in grado di far inserire la retromarcia al paese, allora mi deve essere garantito il diritto di non essere più parte della «nazione ebraica» in Israele.
Però anche prima che la Knesset approvasse quella legge le minoranze denunciavano di essere discriminate
Vero. Il sistema era ben lontano dalla perfezione, ma almeno lasciava immaginare la possibilità di un progresso nella giusta direzione. Ora invece, con la legge approvata nel 2018, la discriminazione è diventata parte integrante dell’ordinamento giuridico, è ufficiale, e questo sta bene a tantissime persone. Perciò Israele deve darsi al più presto una Costituzione che affermi senza ambiguità uguali diritti e status a tutti i suoi cittadini.
Ritiene che ciò possa avvenire in tempi ragionevolmente brevi?
Gli indizi dicono il contrario eppure sono ottimista. Anni fa quando ponevo interrogativi su questi temi ai miei conoscenti o durante i dibattiti, mi consideravano un visionario, quasi un folle sganciato dalla realtà. Oggi non poche di quelle persone mi dicono che avevo ragione. Ciò che oggi appare impossibile, diventerà realistico tra qualche anno.
Lei rivolge la sua critica e le sue esortazioni agli ebrei. E i palestinesi?
Il loro ruolo è fondamentale per il cambiamento di Israele, devono agire. Cosa aspettano a partecipare alle elezioni a Gerusalemme, a riempire il consiglio comunale di loro rappresentanti e a candidarsi a sindaco? Da 53 anni lasciano all’occupante la facoltà di realizzare tutto ciò che desidera nella città. Mi piacerebbe vedere un sindaco palestinese alla guida di Gerusalemme e non avrei problemi a farmi governare da un primo ministro palestinese. Andiamo oltre, verso uno Stato in cui tutti sono uguali e nessuno vale più di un altro. La soluzione dei due Stati è irrealizzabile, ci vuole un unico Stato per palestinesi ed ebrei. Anche ai milioni di palestinesi ancora sotto occupazione deve essere concesso, come minimo, il diritto di voto per il parlamento israeliano. Pagine esteri