Di Valeria Cagnazzo
(foto di archivio: una mina antiuomo, di Lamacchiacosta wikimedia commons)
Pagine Esteri, Anabah, Afghanistan, 8 aprile 2024 – Un posto pieno di luce – Le stanze del reparto di chirurgia dell’ospedale di Emergency ad Anabah sono sempre piene di luce. Il bianco e il rosso delle pareti sono ancora abbaglianti, come se non fossero già passati venticinque anni da quando questa struttura è stata tirata su. In uno dei letti disposti contro i muri, il letto numero quattro, anche lui investito dalla luce come tutte le cose intorno, A. tiene lo sguardo fermo nel vuoto. Il suo corpo è avvolto da lenzuola bianchissime, ma sul suo volto i segni dell’esplosione sono evidenti. La guancia sinistra è una costellazione di ferite da scheggia ancora fresche, che si estendono verso l’alto gonfiandogli l’occhio e si allungano fino al collo e sotto al pigiama, mezzo scoperto dalle coperte, bianco e celeste.
“Non sorride mai”, dice di lui un infermiere. A. ha dodici anni. Tre giorni fa, stava giocando all’aperto, vicino alla sua casa nell’Afghanistan nord-orientale. La sua attenzione è stata catturata da un oggetto quasi nascosto tra i fili d’erba. Era una mina: gli è esplosa davanti quando ha provato a prenderla. Nell’esplosione, A. ha riportato diverse ferite sul corpo, che hanno necessitato di un’immediata pulizia chirurgica, ma non ha perso nessuno dei suoi quattro arti. Tanti suoi coetanei non hanno la stessa fortuna.
“Solo nelle ultime tre settimane, abbiamo ricevuto quattro bambini feriti dall’esplosione delle mine”, mi dice F., un’altra infermiera. “A. è il più grande di loro, gli altri avevano tra i quattro e i sette anni. E’ anche il più fortunato di questo periodo. Di solito quando arrivano da noi hanno già perso delle dita, una mano, un piede, o siamo costretti a procedere con amputazioni di emergenza. Pensano che si tratti di giocattoli e li raccolgono da terra. “Pensavo che dopo quarant’anni (dall’occupazione del Paese da parte delle truppe sovietiche, che fecero un massiccio utilizzo di mine anti-uomo sul territorio, ndr), il numero di mutilati si sarebbe ridotto, e, invece, i bambini che rimangono feriti sono sempre tanti”.
In Afghanistan i bambini continuano a saltare sulle mine. Dal 1989 ad oggi, circa 44.000 civili afghani sono stati uccisi o feriti dalle mine, secondo l’agenzia ONU UNMAS (il Servizio di Azione per le Mine delle Nazioni Unite). Una media di 110 persone ogni mese, tutti gli anni, negli ultimi trentacinque anni. Un report dell’UNICEF sull’impatto degli ordigni civili ha documentato che nel solo 2022, almeno 700 bambini sono rimasti uccisi o menomati dallo scoppio di mine inesplose: vale a dire circa due bambini ogni giorno.
Negli ultimi quarant’anni, circa 3.663 chilometri quadrati in Afghanistan sono stati sminati e restituiti in sicurezza alle 3.500 comunità che li abitavano, ma restano almeno altri 1.283 chilometri quadrati di terra in cui si troverebbero oltre 5.390 “pericoli identificati” nel terreno. Questo significa che circa 1.537 comunità afghane vivono in aree ancora costellate da oggetti inesplosi.
Una lunga storia fatta di ferite – Il 4 aprile di ogni anno, si celebra la Giornata internazionale per l’azione contro le mine, istituita dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 2005. Strumento di guerra considerato “perfetto” perché economico, facile da utilizzare, maneggevole e capace di generare terrore in intere popolazioni di civili, le mine furono utilizzate per la prima volta nella guerra d’indipendenza americana (1861-65) e successivamente nella Prima Guerra Mondiale, quando venivano disseminate sul terreno in funzione anti-carro armato. Se ne fece abbondante uso durante la Seconda Guerra Mondiale, nella guerra in Indocina e durante l’occupazione sovietica dell’Afghanistan dal 1979 al 1989.
Se all’indomani del secondo conflitto mondiale venivano impiegati i prigionieri di guerra per lo sminamento dei terreni, furono in seguito le Nazioni Unite a farsi carico di campagne di rimozione delle mine. Si iniziò proprio in Afghanistan nel 1989, dopo il ritiro dell’esercito russo. Negli anni ’90 poi programmi di sminamento furono avviati anche in Mozambico, Cambogia, Angola e in Bosnia.
Contro questi ordigni perfetti che mutilavano civili in tutto il mondo, sotto gli occhi di un’opinione pubblica occidentale che attraverso la televisione e internet iniziava ad affacciarsi con crescente attenzione sugli orrori della guerra, dal 1996 le Nazioni Unite avviarono una serie di negoziati, noti con il nome di “Processo di Ottawa”, che avrebbero portato nel 1997 alla Convenzione sul Bando delle Mine Anti-uomo. La Convenzione prevede il divieto all’uso, lo stoccaggio, la fabbricazione e la distribuzione delle mine e ne impone la distruzione ed è attualmente sottoscritta da 164 Stati. Con questo scopo, nello stesso anno, fu fondata l’UNMAS.
Da allora, in meno di trent’anni, centinaia di milioni di mine anti-uomo sparse nel mondo sono state rimosse, ma gli ordigni inesplosi continuano a rappresentare un pericolo spesso sottovalutato per i civili. Secondo quanto dichiarato dall’Unicef, nel 2023 sono state almeno 1.052 le esplosioni accertate di mine e ordigni esplosivi che hanno coinvolto dei civili. Quasi il triplo rispetto al 2022. Un numero in espansione, e le vittime sono almeno per il 20% bambini: i più vulnerabili, in quanto incapaci di riconoscere questi oggetti e il pericolo che rappresentano. Secondo l’Atlante delle Guerre, sarebbero almeno 60 i Paesi nel mondo contaminati da mine antipersona, 29 quelli contaminati da cluster bombs e 24 da ordigni esplosivi improvvisati (IED).
Giles Duley, il fotografo “sopravvissuto” – Uno dei volti promotori dell’Agenzia dell’Onu contro le mine è un fotografo di guerra inglese, Giles Duley, nominato rappresentante delle persone con disabilità nelle situazioni di conflitto e di costruzione di pace per le Nazioni Unite.
“Per alcuni”, dice, “la guerra non finisce quando viene firmato un trattato di pace”. Lui lo sa bene.
La sua vita è un viaggio costante tra zone di guerra dove lavora come reporter, campi profughi e posti remoti di cui documenta le cucine tipiche, aree di conflitto in cui le ambulanze della sua ong portano aiuti ai civili, ma c’è anche molto di più. La sua storia è di ispirazione per molti.
“Nel 2011 ero in Afghanistan. Lavoravo lì per documentare l’impatto della guerra sui civili. Nel febbraio di quell’anno, la mia vita è cambiata, quando ho messo un piede su un Improvised explosive device, essenzialmente una mina”, racconta in un video disponibile sul sito dell’agenzia. “Ho perso entrambe le mie gambe e un braccio. Ho speso l’intero anno successivo ricoverato in ospedale per guarire da quelle ferite. Durante quell’anno, ho ricevuto 37 interventi chirurgici. Mi era stato detto che non avrei più camminato, che non sarei più stato indipendente. Era fuori questione che sarei mai più stato un fotografo”. La mutilazione, però, non l’ha fermato. “Diciotto mesi più tardi, sono tornato in Afghanistan per documentare l’impatto della guerra sulla vita delle persone come me”.
Per Duley, questa esperienza ha fatto la differenza nella sua professione, oltre che nella sua esistenza, perché lo ha messo, dice, “letteralmente a camminare nelle scarpe delle persone di cui voleva raccontare la vita”.
“In un giorno stesso, posso essere due persone. Quando mi sveglio, e ho dolore, (…) in molti modi mi sento una “vittima” di una mina. Ma nello stesso giorno, ho anche la forza di una persona che ha attraversato un’esperienza del genere, e questa resilienza fa di me un “sopravvissuto”. L’opportunità di viaggiare per il mondo e portare avanti il mio lavoro, avere una vita simile a quella che avevo prima delle ferite, fa di me un “sopravvissuto”. Da qui, la fondazione della sua organizzazione, Legacy of war foundation: assicurarsi “che tutte le vittime delle mine abbiano l’opportunità di avere una vita piena come “sopravvissuti””.
“Per un bambino che è ferito da una mina e che perde un arto per l’esplosione di una bomba, quella è una condanna che dura tutta la vita”. E ricorda la storia di Ataqullah, un bambino di 7 anni incontrato a Kabul nel 2012, proprio alcuni mesi dopo l’incidente che lo aveva mutilato di tre arti. Ataqullah aveva perso un braccio e una gamba, e in un centro di fisioterapia della Croce Rossa stava imparando a camminare su una gamba protesica per la prima volta. “L’ho guardato mentre si sforzava di camminare avanti e indietro. Ho pensato a tutto il dolore che io avevo sofferto tutti i giorni, fisico ed emotivo. Mi ricordo di essermi chiesto: perché un ragazzino deve passare attraverso la stessa esperienza che ho attraversato io, semplicemente perché stava andando a scuola? E appena gli ho scattato una fotografia, mi sono ritrovato in lacrime”.